Lampedusa, due anni fa il naufragio


Redattore Sociale


La strage eritrea che cambiò la politica sui migranti: 360 dei 368 naufraghi erano scappati dal regime dittatoriale di Isaias Afewerki.


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Il 3 ottobre 2013, alle 4.30 del mattino, una nave partita la sera precedente dalla Libia si rovescia a 800 metri dall’Isola dei Conigli, il pezzo di terra separato da pochi metri di acqua da Lampedusa. L’imbarcazione ha a bordo tra 520 e 550 persone. Nonostante i tentativi di aggrapparsi a pezzi di relitto e l’intervento di alcuni pescatori attirati dalle grida, 368 persone muoiono affogate. I superstiti saranno 155, ma qualcuno sostiene che ci sia anche una ventina di dispersi.

Secondo le prime ricostruzioni, la causa del naufragio è un incendio scoppiato nella stiva, mentre la barca è ferma e in attesa di soccorsi. In realtà l’incendio è la causa che scatena il panico a bordo, spingendo tutti i passeggeri da un lato e determinando il rovesciamento. Ma il fattore che provoca il maggior numero di vittime è il riversarsi in mare di centinaia di litri di nafta presenti nella stiva: il carburante oleoso impedisce a molte persone di essere salvate e ne  intossica molte altre che vanno a fondo.

Non è la prima, ma è una delle tragedie dell’immigrazione più gravi della storia moderna nel Mediterraneo. Ed è quella che si ricorda di più per almeno due motivi. È anzitutto una strage quasi tutta eritrea: 360 vittime vengono da questo piccolo stato africano (gli altri 8 dall’Etiopia). Speranza dell’emancipazione dei paesi poveri dopo l’indipendenza ottenuta dall’Etiopia nei primi anni 90, il paese governato da Isaias Afewerki è oggi una delle più assurde dittature al mondo, con la popolazione costretta a una leva militare schiavizzata che può durare tutta la vita. E con intere famiglie che decidono continuamente di scappare.

È inoltre la strage che dà origine all’operazione Mare nostrum, che nei 12 mesi successivi salverà la vita a oltre 160 mila migranti provenienti dall’Africa grazie alle navi della Marina militare autorizzate a intervenire a ridosso delle coste libiche. Un’operazione sospesa e sostituita da Triton (nella quale le navi potevano spingersi solo a 30 miglia dalle coste italiane), ma oggi di fatto tornata in vita, con numerosi salvataggi che continuano ad essere fatti oltre i limiti e con vari interventi di imbarcazioni private. Mare nostrum insomma ha contribuito in modo determinante a far aprire gli occhi all’Europa sul fenomeno migratorio, fino ad arrivare negli ultimi mesi, con molte resistenze, all’approvazione degli accordi per la ricollocazione dei rifugiati nei paesi membri.

Poco tempo dopo la strage di Lampedusa, si è costituito il Comitato 3 Ottobre, con lo scopo di “fare riconoscere la data quale ‘Giornata della Memoria e dell’Accoglienza’ sia a livello nazionale che Europeo”. È a questo comitato che si devono i tre giorni di commemorazione che anche quest’anno animeranno l’isola siciliana, insieme a molte altre iniziative organizzate in tutta Italia da varie associazioni.

Da quell’ottobre 2013 sono cambiate molte cose per Lampedusa: proprio grazie a Mare nostrum, la “porta d’Europa” ha smesso di essere l’approdo preferito dei migranti che ora, salvati in alto mare, vengono condotti in altri parti italiani. Il suo centro di prima accoglienza venne chiuso due mesi dopo anche grazie a un servizio di Valerio Cataldi sul Tg2 che rivelava i modi inumani in cui gli ospiti venivano trattati.

Ma l’isola è già sede di uno dei 5 “hotspot” voluti dagli accordi europei dei migranti ed è facile scommettere che il nome di Lampedusa continuerà ancora a lungo ad essere uno dei simboli più evocativi delle migrazioni del ventunesimo secolo.

Fonte: www.redattoresociale.it

29 settembre 2015

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