Deportati a casa propria


Tavola della pace


I pacifisti italiani entrano nella zona C della Cisgiordania. Secondo gli accordi dovrebbe essere già sotto l’Autorità nazionale palestinese. Nei fatti rimane occupata militarmente da Israele, mentre gli insediamenti dilagano.


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Beduini

Arrivare a Khan al Akhmar non è facile. Non c’è un ingresso, il pullman deve fermarsi lungo l’autostrada verso Gerico e scendiamo al volo, superiamo il guard rail e ci arrampichiamo per una collinetta di sassi e terra. E’ giusto così, l’accampamento della tribù Jahalin è illegale, lo è qualunque struttura, anche quattro assi e una coperta, tirata su da palestinesi in questa area.

Siamo nella zona C della Cisgiordania. Qui è ufficialmente territorio palestinese, nei fatti tutta la zona è controllata militarmente dagli israeliani, tutto è vietato ai palestinesi. Mentre un po’ ovunque spuntano e crescono insediamenti di coloni, che si spingono sempre più dentro la zona.

Proprio sopra incombe Maaleh Adumim, il più grande insediamento come superficie e il terzo per abitanti. Una lunga striscia di alti edifici che si estende sul territorio di Gerico, preparando il prossimo ampliamento del governatorato di Gerusalemme. Un piano a cui si oppongono, inutilmente, le agenzie Onu presenti.

Gli effetti più pesanti, qui, li subiscono proprio i beduini. Quella di Khan al-Ahmar è una delle 20 comunità residenti nella periferia di Gerusalemme che le autorità militari intendono sgomberare. Sono in tutto circa 2mila persone, che vengono spinte sempre più verso zone inospitali, senza la possibilità di garantirsi un tetto stabile e una vita dignitosa e con le scuole più vicine a 20 km di distanza.

Sono proprio i funzionari Onu ad accompagnarci da Abu Khamis, il capofamiglia di questo piccolo villaggio che vive di quel poco di pastorizia rimasta e di aiuti umanitari.

La vita per loro, ci racconta, è durissima, segnata da sgomberi e vessazioni, che in alcuni casi diventano vere e proprie forme di accanimento giudiziario. Ogni volta che qualcuno si allontana, magari per un lavoretto, teme che arrivino i militari per abbattere le povere case che si sono costruiti con le loro mani, disperdere le greggi, maltrattare donne e bambini.

Due anni fa in questo piccolo villaggio, una Ong italiana, Vento di terra, con il contributo della Cooperazione italiana, ha costruito una scuola per i bambini delle famiglie beduine dell’area. Un’idea nata da Arcò – Architettura e Cooperazione, che ha progettato la scuola secondo i criteri dell’architettura bioclimatica, utilizzando duemila copertoni usati, recuperati nelle discariche e ricoperti di una malta, in modo da creare muri spessi che proteggono dal caldo e dal freddo e costano poco.

Una sfida riuscita. Ma, la scuola costruita con i copertoni riciclati ora è a  rischio demolizione, perché priva di autorizzazione come tutto qui. A denunciarli, sono stati gli stessi coloni di Maaleh Adumim, che prima davano lavoro agli uomini. Quando la scuola è stata inaugurata, però, tutte le porte si sono chiuse. La questione è arrivata alla Corte Suprema e la comunità beduina, con l’appoggio delle agenzie Onu presenti, ha fatto ricorso, senza molte speranze, anche se per garantire il diritto allo studio dei ragazzi beduini si sono mosse le istituzioni internazionali per vie ufficiali.

Il diritto allo studio, però, non è il solo diritto negato a queste comunità. I campi beduini non ricevono acqua potabile né energia elettrica. Neanche parlare, ovviamente, di servizi igienici. Eppure basterebbero pochi metri di prolungamento dal vicino insediamento per garantire loro tutto l’occorrente. Ogni abitante del campo consuma in media appena 20 litri al giorno, contro una media di 200 litri a testa per i cittadini israeliani, anche quelli degli insediamenti che spuntano sulle colline circostanti.

Nel campo operano anche le suore comboniane. Aziza ci racconta del mezzo mobile ottenuto grazie alle offerte, che porta le cure primarie ai villaggi. E parla della difficoltà di avere medicinali sufficienti e della mancanza di assistenza per i disabili, sono tanti dice, anche se restano nascosti. In compenso, gli anni passati accanto a queste famiglie ha permesso alle comboniane di guadagnare la loro fiducia e avviare un progetto di educazione sanitaria per le donne, che stanno partecipando con entusiasmo. Una iniziativa che punta a dare una minima autonomia di intervento immediato per i piccoli problemi di salute, che non richiedono una corsa di parecchi chilometri verso l’ospedale più vicino.

Nonostante tutto, la vita di Jahalin va avanti lo stesso. Dopo le tante domande e le espressioni di solidarietà che gli ospiti italiani hanno riversato sul capo famiglia, Abu Khamis ringrazia la delegazione dei rappresentanti degli Enti locali per la pace e i diritti umani, e tutti i presenti: la vostra indignazione è il miglior segnale per noi, significa che avete capito il nostro dramma; e saluta con un invito: raccontate all’Europa cosa accade qui.

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