Un miracolo della buona volontà per salvare la Siria


Joseph Zarlingo


Incontro con padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, in Siria, espulso dal governo di Damasco per le sue posizioni a favore della rivoluzione.


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«A meno che non ci sia un miracolo della buona volontà, la tendenza in atto, la guerra civile in atto, rischia di portare alla divisione della Siria». Il giudizio di padre Paolo Dall’Oglio, gesuita italiano, espulso il 12 giugno di quest’anno dalla Siria, il paese dove dagli anni ’80 lavorava al dialogo interreligioso nella comunità monastica di Deir Mar Musa, a nord di Damasco. La sua espulsione è stata decisa dal governo di Bashar Assad che non ha tollerato le sue prese di posizione molto nette a favore della rivolta, o come dice lui stesso, della «rivoluzione siriana».
L’incontro avviene in una conferenza stampa un po’ clandestina, nella sede del movimento Religion for peace, a Roma, non lontano dalle mura del Vaticano. Padre Dall’Oglio ha iniziato da due giorni una settimana di digiuno di preghiera e protesta, ma questo non ha diminuito le sue energie, né tantomeno la voglia di parlare del paese che ama: «Sembra che ci sia un tacito accordo internazionale per distruggere la Siria – dice – per togliere dalla mappa un paese protagonista della storia del Medio Oriente e farne un ring per le rivalità regionali e internazionali». L’esito più tragico di questo incontro di pugilato sulla pelle dei siriani potrebbe essere, secondo padre Dall’Oglio, la divisione del paese: «La linea di questo impossibile confine dovrebbe essere il fiume Oronte, quello che separa la Siria costiera dall’interno, ma c’è anche la possibile secessione delle regioni kurde del nord est». E’ una prospettiva terribile, da cui si può uscire, secondo il gesuita, con uno sforzo diplomatico eccezionale che includa, innanzi tutto, la Russia e l’Iran: «Lo chiederò al ministro degli esteri italiano Giulio Terzi quando ci vedremo nella prossima settimana – dice padre Dall’Oglio – L’obiettivo di questa azione diplomatica dovrebbe essere smetterla di cercare di sottrarre la Siria all’influenza di Mosca e di Teheran per consegnarla a quella statunitense e saudita. Ci vorrebbe una Siria neutrale, libera di seguire il proprio cammino secondo la volontà del suo popolo che si è sollevato per chiedere democrazia, diritti e dignità, dopo 40 anni di potere gestito da una famiglia e da una cricca a lei vicina».
Una prospettiva del genere, tuttavia, è molto lontana dall’agenda internazionale e dall’attività, per esempio, dell’inviato speciale dell’Onu Lakhdar Brahimi sul cui operato, padre Dall’Oglio non nasconde le sue forti perplessità: «Non ci sono punti di mediazione tra la rivoluzione e il regime – dice – Non dopo diciassette mesi di repressione. Deve essere chiaro che i siriani non tornano indietro, non vogliono tornare indietro e ciò che si può negoziare è il come e il quando della fine del regime».
Un regime che secondo il sacerdote sta giocando molto abilmente sulle paure delle minoranze interne alla Siria, a partire dagli alawiti e dai cristiani, così come sulla confessionalizzazione del conflitto: «E’ chiaro che ci sono infiltrazioni di gruppi islamisti estremisti, spesso gli stessi gruppi che questo regime ha pilotato in Iraq contro l’occupazione statunitense – spiega – Ma deve essere altrettanto chiaro che questi gruppi sono dei clandestini a bordo della rivoluzione, hanno la loro agenda politica che non coincide in nulla con quella della rivoluzione e che anzi serve il regime, nel senso che contribuisce a rappresentare lo scontro in Siria come uno scontro confessionale». E’ una rappresentazione che ha fatto breccia, nota con amarezza Dall’Oglio «anche in alcuni settori dell’opinione pubblica europea, dove alcuni ambienti legati al cattolicesimo tradizionalista soprattutto francese vedono nella vicenda siriana l’ennesima dimostrazione dell’esistenza di un complotto contro i cristiani e hanno cercato di attivare i sensori islamofobi di alcuni settori sociali. In realtà, nella rivoluzione siriana ci sono tutti i tipi di siriani, sunniti di vario genere, sciiti di varie correnti, ismailiti, cristiani, drusi, e anche alawiti, nonché quelli che non vogliono essere identificati con una comunità religiosa, perché magari sono comunisti o si definiscono semplicemente siriani. La pluralità della rivoluzione rispecchia la pluralità della società siriana».
E’ una pluralità però messa a dura prova dalla violenza del conflitto e dalle dinamiche della guerra: «Non sempre i rivoluzionari sono stati all’altezza degli impegni che sono stati assunti pubblicamente in tema di rispetto dei diritti umani – ammette il gesuita – Ma di questo, così come delle responsabilità individuali dei singoli esponenti del regime, si dovrà occupare il tribunale penale internazionale per ciò che riguarda eventuali crimini contro l’umanità e i tribunali siriani per tutto il resto. Nella Siria del futuro non dovrà esserci posto per le vendette, meno che mai per quelle contro intere comunità, ed è per questo che cerchiamo di lavorare, anche se finora la nostra voce è stata ascoltata troppo poco dai governi bloccati in un’impasse diplomatica che, prima di essere politicamente esplosiva, è moralmente inaccettabile».
Uno scossone, forse, potrebbe venire dalla prossima visita di papa Benedetto XVI in Libano, tra pochi giorni: «Nel suo messaggio il Papa riprenderà le conclusioni del sinodo apostolico del Medio Oriente del 2010 e già allora, in quella occasione, i cristiani orientali erano stati invitati a riporre le speranze per il futuro non nella protezione di un qualche stato centralizzato ma nella consapevolezza della possibilità e della necessità di vivere assieme proprio in funzione della pluralità dell’appartenenza religiosa. Credo che, oltre a questo, il Santo Padre parlerà anche di difesa dei diritti umani, di protezione dei profughi, di rispetto della libertà di espressione. Non c’è, e non potrebbe esserci, un destinatario specifico per questo messaggio, ma naturalmente il contesto è quello che conosciamo».
A chi ipotizza soluzioni “alla libanese”, cioè con la divisione del paese e della società su basi rigidamente confessionali – gli accordi di Ta’if che posero fine alla guerra civile libanese furono mediati, tra gli altri da Brahimi – Dall’Oglio risponde che «il confessionalismo libanese va superato in Libano, non di certo esteso alla Siria, dove sarebbe un altro modo per dividere un paese che invece vuole rimanere rimanere unito, a patto che questa unità sia una ulteriore garanzia per la democrazia e il rispetto dei diritti».

Fonte: www.lettera22.it

5 settembre 2012

 

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