Tutti i rischi del “pantano libico”


Umberto De Giovannangeli


La nostra missione in Libia potrebbe essere un buco nell’acqua, tanto per far vedere che ci siamo pure noi, oppure rischiamo di immergerci nel “pantano libico”, che può rivelarsi anche peggiore di quello afghano. Martedì discussione in Parlamento sull’accordo.


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Puntualizzare le regole d’ingaggio, va bene. Delimitare la portata dell’intervento, ancor meglio. Tuttavia, il rischio che l’Italia finisca per impaludarsi nel “pantano libico”, è tutt’altro che fugato. Soprattutto se si scegliesse di rincorrere la Francia su una strada senza uscita.

 

Vale la ricapitolare in cosa consista il caos libico. Ecco una breve sintesi: c’è il governo presieduto da Fajez al-Serraj, poi c’è quello che regge di fatto la Cirenaica, che ha come leader il generale Haftar, c’è l’Isis casa madre, le milizie islamiche, Fajr, e i mujaheddin filo-Isis, la Brigata Battar, gli Islamici di Ansar al Sharia e gli uomini del Consiglio rivoluzionario, c’è Ali Qiem Al Garga’i e due emissari di al-Baghdadi, i Fratelli musulmani di Al Sahib, gli ex membri del Gruppo combattente libico pro al Qaeda, una formazione più estrema della Fratellanza, c’è Omar al Hassi sponsorizzato dalla Turchia, i mujaheddin del Wilayat Trabulus, le milizie di Zintan e una massa di altre 200 organizzazioni oltre le 140 tribù.

 

Se si vuole stabilizzare per davvero la Libia, spiega il generale Fabio Mini, ex comandante Nato, ora brillante saggista, servirebbero “come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone”. E occorrerebbe mettere in conto almeno 50 morti a settimana.

Quando l’allora presidente francese, Francois Hollande, decise che la risposta più appropriata ai terrificanti attacchi terroristici a Parigi compiuti dell’Isis fosse sganciare bombe su Raqqa, la capitale dello Stato islamico in Siria, Matteo Renzi, a quei tempi a Palazzo Chigi, affermò che per contrastare il terrorismo jihadista non servivano “spot militari”. Senza una strategia politica, era l’assunto del premier italiano, lo strumento militare rischia di rivelarsi non solo fallimentare ma controproducente. Questo discorso può essere oggi allargato dalla Siria alla Libia.

 

Ora, l’analisi militare non sarà una scienza esatta, ma ci va vicino. E l’aspetto militare andrebbe reso funzionale al fine politico che s’intende perseguire. Per quanto riguarda l’Italia, la notizia del giorno è che il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla missione in Libia con le navi italiane che entreranno nelle acque di Tripoli per supportare il lavoro della Guardia costiera locale. “È un’operazione di supporto e non contro” ha tenuto a precisare il premier italiano Paolo Gentiloni al termine del Cdm: “Quello che abbiamo approvato non è né più né meno quel che ci è stato richiesto dal governo libico”.

 

Non sfugge il silenzio di Serraj e soprattutto quello, molto più significativo e inquietante, del vero uomo forte della Libia: il generale Khalifa Haftar. Ora, puntualizzazioni a parte, se si vuole per davvero contrastare gli scafisti, è d’obbligo operare come si fa quando si è alle prese con una operazione di polizia internazionale, per non usare il termine, forse più appropriato, di azione di guerra. Per contrastare gli scafisti occorre implementare un blocco navale, dentro o fuori le acque costiere libiche. Ebbene, per implementare il blocco navale – rileva un report del GeopoliticalCenter – devono essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti. A questo si potrebbe aggiungere un intervento, in accordo con la Libia, delle forze speciali italiane, che potrebbero contribuire in loco all’individuazione dei luoghi di detenzione dei migranti e all’arresto dei malviventi che fanno parte delle organizzazioni criminali che operano le partenze.

 

Quanto alle rotte dei barconi, direzione Italia, i punti di partenza sulla costa ad ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur. Alle porte della capitale gli imbarchi avvengono a Tagiura e verso Misurata a Tarabuli. Tutte zone che sfuggono al controllo dell’improbabile esercito del governo Serraj. I clan criminali che si occupano materialmente della tratta pagano il pizzo alle milizie che controllano il territorio. A Zuara, lo snodo più importante, ogni viaggio genera un giro d’affari medio di 150mila euro. Il pizzo ai miliziani è di 18mila euro, poco più del 10 per cento.

 

C’è poi l’aspetto umanitario. “L’Unione Europea e i suoi Stati membri devono prendere atto della realtà. La Libia non è un Paese sicuro, per questo non possiamo considerare questa proposta come un approccio umano alla migrazione”, ha affermato Arjan Hehenkamp, uno dei direttori generali di Msf, di ritorno da una missione in Libia, dove ha visitato molte persone detenute a Tripoli. Gli fanno eco in una dichiarazione congiunta Oim e Unhcr: “Chiediamo che in Libia venga immediatamente abbandonata una gestione dei flussi migratori basata sulla detenzione automatica di rifugiati e migranti in condizioni disumane, e si costruiscano, invece, adeguati servizi di accoglienza. I centri di prima accoglienza devono offrire condizioni sicure e dignitose, anche per i minori e le vittime di tratta, e rispettare le garanzie di protezione fondamentali. Siamo fermamente convinti che, data la situazione attuale, non si possa considerare la Libia un Paese terzo sicuro né si possano avviare procedure extraterritoriali per l’esame delle domande di asilo in Nord Africa”.

 

L’Italia, spiegano alla Farnesina, alla Difesa e al Viminale, è impegnata a rafforzare le capacità operative della Guardia costiera libica e la nostra sarà un’azione di supporto. Solo che “In Libia è improponibile parlare di Guardia costiera, ma di un’istituzione che rimane espressione delle realtà locali”, spiega Gabriele Iacovino, esperto di Libia del Centro di studi internazionali (CeSI). “Una cosa è la guardia costiera di Misurata, un’altra quella di Zawiya. In particolare, in questa regione della Libia, i poteri locali sono nemici delle milizie che controllano Tripoli”.

 

E poi, ancora, c’è la domanda di fondo: con quale visione, non emergenzialista, si intende oggi affrontare “l’avventura libica”? La risposta ufficiale è: per rafforzare il Governo di accordo nazionale guidato da Serraj e operare per la stabilizzazione del Paese nordafricano. Nobile intento, ma che ha il difetto di scontrarsi con una realtà che va in tutt’altra direzione. L’ambizione del generale Haftar va molto al di là dell’ipotetico incarico di ministro della Difesa, alle dipendenze di quello che, nei colloqui privati anche con diplomatici occidentali, così come in dichiarazioni pubbliche, solo un pochino più edulcorate, continua a definire come una “nullità” (Serraj). L’uomo forte della Cirenaica ha ritagliato per sé il ruolo di “al-Sisi libico”, ricevendo il sostegno, politico e militare, dell’al-Sisi autentico, il presidente-generale dell’Egitto.

 

Se l’Italia vuole stare al sicuro è a lui, al generale Haftar, che deve chiedere il via libera per l’intervento anti-scafisti nelle acque libiche, altrimenti prepariamoci al peggio. Perché delle due, l’una: o la nostra azione è un buco nell’acqua – tanto per far vedere che ci siamo pure noi – oppure rischiamo di immergerci nel “pantano libico”, che può rivelarsi anche peggiore di quello afghano.

Umberto De Giovannangeli

27 luglio 2017

Fonte: www.huffingtonpost.it

 

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