Prigioni con un altro nome


Famiglia Cristiana


Editoriale di "Famiglia cristiana". C’è un prezzo che il nostro paese considera troppo alto e non vuole pagare: quello dell’immigrazione. Le scorciatoie della politica (di grande effetto mediatico, ma di scarsa praticabilità costituzionale) hanno inquietato la Chiesa.


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Prigioni con un altro nome

Non sempre è facile dare una risposta, soprattutto se, come cristiani, ci si distrae, relegando il Vangelo in un angolo, insieme alle esigenze di giustizia e solidarietà. Eppure, i princìpi evangelici sono chiari, e su questi saremo giudicati: "Avevo fame e mi avete dato da mangiare, nudo e mi avete vestito… straniero e mi avete accolto". Non basta, però, leggere e dimenticare. Occorre agire, responsabilmente, contro la mentalità corrente, che è pesantemente ostile agli immigrati. Si possono coniugare giustizia e legalità con solidarietà e accoglienza, senza erigere nuovi muri tra i poveri e i ricchi. Mentre si aprono Centri di identificazione ed espulsione (cioè una sorta di prigioni con altro nome, dove i diritti appaiono sospesi), la Chiesa chiede di cambiare rotta, di rinunciare alle scorciatoie e costruire con pazienza, mettendo insieme le competenze del paese al servizio della vita di tutti. Oggi la Chiesa sta con gli ultimi, che sono gli immigrati, i nuovi poveri, le famiglie colpite, più di altre, dalla recessione e dalla crisi, i barboni che frequentano di notte le stazioni, dove un caffè caldo e un panino lo portano solo le “ronde della carità”, cioè le associazioni cattoliche. Vittorio Bachelet, presidente dell’Azione cattolica, ucciso dalle Brigate rosse, diceva: ‘Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento di amore’. È questo l’insegnamento su cui insiste Benedetto XVI: la misericordia come progetto e l’amore come strumento della misericordia. Don Tonino Bello la chiamava caritas sine modo, cioè carità senza tante domande. Non è follia politica, è Vangelo. Solo così si incrementa la sicurezza e si promuove la giustizia sociale. La Caritas italiana è andata a Lampedusa per condividere la povertà degli immigrati che vi approdano e la drammatica situazione degli abitanti dell’isola, dimenticati da tutti, già ben prima dell’arrivo degli stranieri; e per invitare il Paese a non avere paura dell’immigrazione. ‘L’esperienza mostra’ ricordava Giovanni Paolo II, ‘che quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnovamento sociale e da una vigorosa spinta verso inediti traguardi economici e umani’. Parole che valgono ancor di più in tempi di recessione. Ma non bisogna temere di mettere in pratica il Vangelo. Chi emigra non lo fa a cuor leggero, sono vite gettate con violenza nel ciclone della storia, approdano da noi dopo aver tanto sofferto per fame, guerra e persecuzioni. La politica è chiamata a dare una mano e, come ha ricordato Gianfranco Fini al congresso del Pdl, a ‘trovare nuovi percorsi per dare cittadinanza agli immigrati’, perché noi italiani – non dimentichiamolo – siamo figli di un popolo di migranti. La Chiesa invita anche a non creare zone grigie di compensazione dove infilare gente che non riteniamo cittadini, e nemmeno uomini. L’immigrazione non è un pericolo. Nel volto di questi poveri impariamo a vedere di più il volto di Dio.

Fonte: www.misna.it
31 marzo 2009

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