Palestina, doppia miccia


Tommaso Di Francesco - Il manifesto


Ancora scontri in Terra Santa: Israele sta erigendo il terzo muro al confine con l’Egitto senza avere ancora spento la protesta palestinese.


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Palestina, doppia miccia

 Difficile ogni equivoco, vista la rivendicazione del gruppo salafita «sconosciuto» Ansar al-Sunna, che rivendica legami con Al Qaeda, e che Hamas – impegnata ora a costruire un movimento contro l’occupazione, anche in Cisgiordania – combatte militarmente.
Nonostante questo però è probabile che l’avvenimento porterà a reazioni militari da parte d’Israele.
La vittima casuale del micidiale razzo è un immigrato thailandese. Una morte che sfortunatamente arriva a raccontare molto di più il presente di tanti annunci governativi. Perché, molto più dei grattacieli di Dubai, la Striscia di Gaza isolata e la Cisgiordania occupata militarmente e frazionata in una miriade di colonie ebraiche e attraversata dai muri di sicurezza e separazione, ma anche lo stesso Israele, insieme a parti consistenti dei paesi arabi, sono probabilmente oggi i luoghi simbolici della globalizzazione incompiuta. Questi territori, da centro esclusivo dei problemi e cuore della crisi internazionale, sono infatti diventati progressivamente la periferia immensa che nasconde il conflitto. E che lo cela sotto una coltre di micro-realtà, non ultima appunto la questione dell’immigrazione cresciuta di valore e peso economico e sociale a ridosso della non risoluzione della crisi mediorientale. Non a caso il governo israeliano sta erigendo il terzo muro di separazione proprio al confine con l’Egitto per fermare i migranti clandestini. Senza avere ancora spento la protesta palestinese. Siamo ad una doppia miccia.
Sullo sfondo, domina l’agenda la crisi dei rapporti tra Israele e Stati Uniti. Per la quale ieri Obama, nell’intervista alla Fox, ha voluto insistere che «di crisi non si tratta, l’America è indissolubilmente legata a Israele, è il suo migliore alleato: è un disaccordo, una lite in famiglia, anche con gli amici più intimi si discute». Alcuni la dipingono come un gioco delle parti, altri come un braccio di ferro. Sta di fatto che il «disagreement», la discrepanza, c’è e da almeno trenta anni non è mai stata così evidente. Resa ancor più chiara sia dalla denuncia di Hillary Clinton dell’umiliazione subita dal vicepresidente Usa Joe Biden, che si è visto sotto gli occhi annunciare dal ministro degli interni di Tel Aviv la costruzione di un mega-insediamento di 1.600 alloggi per coloni ebrei a Gerusalemme est, proprio nel momento in cui incontrava il governo israeliano sulla ripresa dei negoziati «indiretti» di pace. Sia dal rapporto ormai non più segreto del comandante in capo dello stato maggiore americano David Petraeus che ha denunciato come il comportamento conflittuale con i palestinesi dell’attuale governo israeliano, metta a repentaglio la sicurezza dei militari americani e la strategia Usa nell’area. Volta al disimpegno armato dall’Iraq e alla prosecuzione della guerra in Afghanistan che la Casa bianca vede comunque a termine. È un disaccordo pesante, una miccia accesa contro la pace.
Perché il nodo non è che gli Stati uniti stanno rompendo con Israele, ma il contrario: è Israele, forte delle troppe impunità internazionali, a rompere con gli Usa. E non basta. Il governo di Netanyahu, a partire dalla forzatura pericolosissima degli insediamenti – «altri 50mila alloggi pronti a Gerusalemme est», denuncia Haaret’z – preme infatti per una prova di forza sul nucleare iraniano. Il messaggio è quello di una prossima guerra. A meno che non ci salvino le periferie con una nuova intifada, anche sociale.

Fonte: il Manifesto

19 marzo 2010

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