La doppia verità su Hamas


Janiki Cingoli


«Chi ci invita a negoziare con Hamas ci invita a negoziare sulle misure della nostra bara», tuona l’ambasciatore israeliano Meir in risposta alle affermazioni del nostro ministro degli esteri, D’Alema, che in una intervista a Sky aveva sostenuto: «Hamas controlla un pezzo importantissimo del territorio palestinese. Se si vuole la pace bisogna coinvolgerli».


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La doppia verità su Hamas

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Forse sarebbe meglio che Meir, e con lui il sottosegretario Vernetti, rivolgessero le loro critiche all’influente ministro israeliano Ami Ayalon, che ha affermato, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz il 4 marzo scorso, durante incontri a porte chiuse con Olmert, Barak e Tzipi Livni, che «se Israele sta parlando con Hamas sul rilascio di Gilad Shalit, allora perché non dovremmo parlare del cessate il fuoco?».
Egli ha altresì espresso l’opinione che Israele dovrebbe raggiungere un nuovo accordo riguardo i passaggi alla frontiera di Gaza, insieme all’Egitto e alla comunità internazionale.
D’altronde, la stampa israeliana in questi giorni è piena delle indiscrezioni sulla tregua temporanea (lul) negoziata tra Hamas e lo stato ebraico, grazie alla intermediazione del capo della intelligence egiziana, Omar Suleiman.
In cambio del blocco dei lanci dei razzi Qassam e dei missili Grad sulle città al confine con Gaza, Israele sospenderebbe le incursioni sulla Striscia e la caccia agli esponenti delle milizie islamiche. Hamas, attraverso i suoi leader più autorevoli, Meshal e Hanyieh, ha ribadito la richiesta che la tregua non si limiti a Gaza, ma si estenda anche alla Cisgiordania, dove i capi dei gruppi islamici sono sottoposti alla crescente pressione, spesso combinata, di Israele e degli uomini dell’Anp, e che essa si accompagni alla fine del blocco israeliano su Gaza.
Di fatto, alla fine della scorsa settimana il numero dei razzi lanciati e delle incursioni israeliane si era drasticamente ridotto, fino alla fiammata di questi ultimi giorni, che ha visto una ripresa accentuata, forse provocata dal tentativo di marcare con il sangue degli altri l’ultimo punto a favore, prima del varo della tregua, come era avvenuto alla fine della guerra in Libano. Il negoziato di fatto tra Israele e Hamas si svolge in parallelo a quello ufficiale tra Israele e l’Anp sul Final Status, e in qualche modo lo intralcia. Abu Mazen si sente scavalcato, e una sua recente proposta di farsi mediatore della tregua con la formazione islamica è stata fatta cadere dalle parti in causa, che hanno continuato a rivolgersi al ben più credibile mediatore egiziano, al quale negli ultimi giorni pare essersi aggiunta la stessa Condoleezza Rice, che a Gerusalemme si è fatta latrice delle ultime proposte provenienti dal Cairo.
In parallelo, si sviluppa la trattativa sulla riapertura del valico di Rafah, verso l’Egitto, cui partecipano gli uomini di Abu Mazen, quelli di Hamas, gli egiziani e l’Unione Europea, che prima del colpo di Hamas presidiava la frontiera. Gli accordi che si vanno profilando prevedono la presenza alla frontiera di soldati della Anp (che quindi rientrerebbe per la prima volta a Gaza dopo il colpo), mentre gli uomini di Hamas presidierebbero la situazione nelle immediate vicinanze.
Lo scambio di prigionieri che potrebbe portare alla liberazione di Shalit coronerebbe tutto questo processo. Anche su questo punto, la discussione è assai avanzata, anche sul numero dei prigionieri palestinesi e sulle modalità della loro liberazione ci sarebbe accordo, come già su una parte dei nomi (tra cui sarebbe incluso il leader palestinese Marwan Barghouti), ora si sta discutendo sui nomi restanti.
Se questa è la situazione, non si capiscono tutte queste grida che si levano a comando, e tutte queste vestali che periodicamente si stracciano le vesti. La realtà è che il negoziato tra Israele e l’Anp sul Final Status non si svolge e non si può svolgere in una campana di vetro, senza tener conto delle concrete situazioni sul terreno, da una parte e dall’altra.
Nessuno propone di aprire un negoziato ufficiale con Hamas, che peraltro non l’accetterebbe, ma di prendere atto che l’organizzazione islamica costituisce oramai una realtà imprescindibile, da «coinvolgere», come propone D’Alema, nel processo stesso, favorendo una ricomposizione interna palestinese e un ritorno agli Accordi della Mecca e ad un nuovo governo di unità nazionale.
Tre stati per due popoli non sembrano una soluzione ragionevole e praticabile.

Fonte: Cipmo.org

14 marzo 2008

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