Pace tra Etiopia ed Eritrea. E adesso?


La redazione


Si consolida il processo di riavvicinamento tra i due paesi. Ed ora?


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Etiopia-Eritrea

Con le recenti visite di una delegazione eritrea ad Addis Abeba e del Primo Ministro etiopico Abiy Ahmed ad Asmara si completa il processo di riavvicinamento fra Eritrea ed Etiopia, avviato alcuni mesi fa con l’accettazione da parte etiopica dei confini decretati dall’Eritrea Ethiopia Boundary Commission dopo l’Accordo di Algeri del 2002.

Gli sforzi compiuti dalle leadership eritrea ed etiopica per raggiungere una pace sostenibile sono stati applauditi da organizzazioni e potenze regionali e globali. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres considera le sanzioni contro l’Eritrea ormai obsolete, mentre l’Unione Europea, gli Stati Uniti e l’Unione Africana, così come le popolazioni di entrambe le nazioni, sono entusiaste della normalizzazione dei rapporti. Ora che le relazioni diplomatiche, commerciali, di trasporto e di comunicazione verranno ristabilite e i confini riaperti, le famiglie divise dalla chiusura delle frontiere aspettano di poter visitare i parenti e beneficiare dalla rinata cooperazione in ambito politico, economico, sociale, culturale e securitario.

Tuttavia non mancano voci di dissenso. Alcuni ambienti della diaspora eritrea sottolineano la mancanza di legittimità degli attori coinvolti nel negoziato, in quanto non eletti dal popolo e ritenuti responsabili dei morti durante la guerra di confine (1998-2000) e di coloro che muoiono scappando dall’Eritrea mettendosi nelle mani di trafficanti. La loro richiesta è che anzitutto l’Eritrea diventi uno stato costituzionale, che tuteli i propri cittadini e non sia causa di emorragia della popolazione in età (ri)produttiva. Anche sul versante etiopico la riconciliazione e il programma progressista di Abiy Ahmed, che include la liberalizzazione dell’economia, la scarcerazione dei dissidenti e l’interruzione dello stato di emergenzaimposto dopo le proteste anti-governative, potrebbero incontrare resistenze. Il Tigrayan People’s Liberation Front (TPLF) al momento dell’ascesa al potere di Abiy Ahmed (Oromo People’s Democratic Organization) ha inviato segnali contrastanti sui tentativi di porre fine alle ostilità con l’Eritrea, sentendosi responsabile degli interessi della popolazione del Tigray dell’Etiopia, la più colpita dal conflitto, e non volendo rinunciare alla propria posizione finora politicamente ed economicamente dominante.

I motivi del riavvicinamento
La volontà di distendere i rapporti con l’Eritrea precede in realtà la nomina di Abiy Ahmed ed è prevalentemente riconducibile a fattori interni. Dopo la chiusura dei confini con l’Eritrea, l’Etiopia è divenuta una potenza regionale e il partner delle potenze occidentali per la sicurezza, sfruttando tale posizione per isolare l’Eritrea. Il governo eritreo, di contro, non fece entrare in vigore la costituzione e supportò ribelli armati nel Corno d’Africa, peggiorando così la propria posizione rispetto ai Paesi confinanti e alle potenze occidentali. Nel tempo, il contenimento dell’Eritrea divenne però una strategia poco sostenibile per il governo etiopico, sia per le nuove alleanze eritree con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, sia perché i disordini interni all’Etiopia, la cui popolazione appartiene a più di 80 etnie, hanno richiesto maggiore attenzione. La minoranza del Tigray, che rappresenta circa il 6% della popolazione totale, detiene le redini della ricchezza e del potere politico del paese attraverso il TPLF. Ma la popolazione somala della regione sudorientale dell’Ogaden sta combattendo questa supremazia ormai da decenni, mentre dal 2015, gli Oromo, il più numeroso gruppo etnico del paese, hanno organizzato proteste in oltre 200 città nella vasta regione centrale dell’Oromia, chiedendo riforme politiche. Quando migliaia di Amhara si sono uniti ai manifestanti oromo, nell’agosto 2016, ne è risultata un’escalation di disordini che ha portato il governo a dichiarare lo stato di emergenza in ottobre. Le tensioni interne e l’impegno militare nelle operazioni di peacekeeping in Somalia, Sudan e Sud Sudan, quindi, rendevano improponibile per il governo etiopico mantenere forze di stanza al confine con l’Eritrea. Nell’aprile 2017, l’allora Primo Ministro Hailemariam Desalegn annunciò dunque una “nuova direzione politica per l’Eritrea” volta a “creare una pace sostenibile”. L’operato di Abiy Ahmed rappresenta in questo senso il culmine di un processo interno, pur agevolato da mediazioni esterne che hanno interessi nella regione.

Le conseguenze della pace
La pace tra Etiopia ed Eritrea dovrebbe portare maggiore stabilità nel Corno d’Africa e nell’intera Africa orientale, ponendo potenzialmente termine anche i conflitti by proxy, sostenuti finanziariamente e militarmente oltre i confini nazionali. L’Etiopia, secondo paese più popoloso del continente con una popolazione stimata di oltre 100 milioni, potrebbe così fare da volano per trasformare l’intera regione in una influente area economica interconnessa. In questo modo anche l’Eritrea, con una popolazione stimata di poco superiore ai 3 milioni, avrebbe l’opportunità di rivitalizzare la propria economia, sfruttando soprattutto l’area di confine dove dovrebbero avvenire nuovi investimenti, anche sotto la pressione dei partner internazionali (in primis l’Italia che è il secondo partner commerciale del Paese dopo l’Arabia Saudita) e di altre parti interessate, come l’Unione Europea, intenzionata a far fronte alla crisi migratoria agendo sui Paesi di origine.

Un ulteriore effetto collaterale del riavvicinamento fra Eritrea ed Etiopia sembra essere la distensione dei rapporti con il Sudan, che aveva chiuso e militarizzato il confine lo scorso gennaio, dichiarando lo stato di emergenza di sei mesi in Northern Kurdufan e Kassala. Il National Congress Party (NCP) del Sudan ha subito espresso la volontà di sviluppare un rapporto costruttivo con la confinante Eritrea, poiché i due Paesi condividono interessi economici oltre che legami socio-culturali. Le relazioni tra Asmara e Khartoum si erano deteriorate in seguito al riavvicinamento tra Sudan ed Etiopia e la firma di diversi patti, tra cui un trattato di difesa comune (2014). Se i legami tra due paesi si normalizzassero, agevolando anche la distensione fra altri attori nel Corno d’Africa, si potrebbero quindi aprire sviluppi positivi non solo per l’economia, ma che per la situazione dei diritti umani e dei flussi migratori.

I flussi migratori
Sulla mobilità della popolazione influiranno però gli esiti che questi cambiamenti di politica estera avranno nella politica nazionale, soprattutto in Eritrea, dove le aspettative sembrano maggiori, in quanto un ritorno alla normalizzazione dovrebbe significare un allentamento del regime di controllo finora giustificato con la minaccia etiopica. Per difendere le aree di confine con l’Etiopia, nel luglio 1994 il governo eritreo aveva introdotto il national service, che obbliga gli eritrei adulti di ambo i sessi a sei mesi di formazione militare e dodici di servizio civile, proponendosi anche come strumento per creare un’identità nazionale coesa e rilanciare il paese. Nel 2004, poi, venne introdotta la Warsay Yekeallo Development Campaign (WYDC), che rappresenta la continuazione del national service mobilitando a tempo indeterminato la popolazione in progetti volti alla ricostruzione socio-economica del paese, divenendo il reale motivo della frustrazione delle giovani generazioni che non vedono possibilità di autorealizzazione in patria.

L’andamento dei flussi migratori rappresenta quindi una risposta alla situazione socio-politica del paese; di conseguenza, la quasi totalità dei richiedenti asilo eritrei indica la coscrizione obbligatoria, riferendosi anche al successivo inquadramento nella WYDC, come motivo di fuga dall’Eritrea. Osservando i dati delle agenzie internazionali si evince che dal 2015 gli eritrei sono per numero la terza nazionalità ad entrare in Europa via mare, registrandosi quinti nel giugno 2018 per numero di arrivi in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. La cultura migratoria che caratterizza la società eritrea ha radici nella lotta per l’indipendenza (1961-1991), ma raggiunge l’apice nel ventunesimo secolo, poiché nel paese non è prevista l’obiezione di coscienza, i disertori vengono puniti (anche colpendo le famiglie), e una serie di dispositivi di controllo dei dissidenti e la censura hanno portato nel 2016 l’UNHCR a contare quasi mezzo milione di rifugiati eritrei in vari Paesi del mondo, ovvero circa il 15% della popolazione eritrea ha chiesto protezione all’estero.

Su questo aspetto è opportuno riflettere: se il governo eritreo ha finora affermato che la mobilitazione della popolazione è resa necessaria dalla continua occupazione dei suoi territori sovrani da parte etiopica, indicandola anche come principale ostacolo all’adempimento dei suoi obblighi nazionali e internazionali nella promozione e protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la distensione dei rapporti fra Eritrea ed Etiopia potrebbe potenzialmente avere un impatto sulla migrazione eritrea, trasformandone la natura e gli esiti.

Cosa ne pensano le popolazioni locali
Ogni conversazione con eritrei in patria offre l’idea di ciò che la gente si aspetta dalla risoluzione delle ostilità tra i due paesi: smobilitazione, allentamento del controllo, miglioramento dell’economia; addirittura qualcuno si sbilancia e aggiunge la liberazione di prigionieri politici e qualche tipo di riforma politica. Queste affermazioni sono avvenute nella copertura quasi assente data dai media statali alla visita della delegazione eritrea in Etiopia e in una prima diffidenza che i notabili sostenitori del PFDJ hanno mostrato nei confronti dell’entusiasmo che la notizia ha suscitato a livello internazionale. La visita di Abiy Ahmed ad Asmara, invece, è stata preceduta da istruzioni date alla popolazione per accogliere l’ospite, benché l’establishment comprenda i potenziali pericoli derivanti dalle aspettative della popolazione, in patria e in diaspora, che potrebbero spingere in modo concertato per un cambiamento. Finora i media statali eritrei hanno coperto solo notizie accettabili per la leadership e solo una parte della popolazione ha accesso a fonti di informazione alternative per comprendere cosa succede nel paese. Durante la visita, i media statali si sono assicurati che il Presidente Isaias Afewerki si fosse fatto credito per l’inaspettato riavvicinamento, lodandolo per la sua resistenza e lungimiranza, trasmettendo estratti dei suoi discorsi passati nel tentativo di mostrare alla nazione che gli sviluppi dell’ultimo mese erano già stati da lui previsti. Di conseguenza, la popolazione sta reagendo in modi diversi al processo di pace: ci sono gli entusiasti vicino al PFDJ, la massa di curiosi che si è riversata nelle strade e coloro che stanno mostrando un atteggiamento critico, quasi di sfida, poiché temono che Isaias stia collaborando con Abiy solo per prolungare il suo periodo al potere e indebolire il TPLF, considerato il nemico comune. La parte più critica della popolazione, inoltre, pare scettica riguardo alle promesse di pace e prosperità, perché il governo aveva in precedenza promesso che il boom dell’industria mineraria avrebbe trasformato il paese in uno stato moderno, ma gli standard di vita sono invece peggiorati; nel 2014, poi, il Presidente aveva promesso di rivedere e mettere in atto la costituzione, limitando anche la durata del servizio civile obbligatorio, ma nulla è accaduto, e questi precedenti finiscono oggi per mettere in dubbio la sincerità riguardo gli sforzi di normalizzazione.

Nonostante per l’Eritrea la pace prospetti reali benefici, come le entrate derivanti dall’utilizzo dei porti nazionali per il commercio etiopico e il potenziale sfruttamento dei giacimenti di potassio al confine tra i due Paesi, resta il dubbio relativo alla possibile smobilitazione dei coscritti nel servizio nazionale e nella WYDC, e alla liberazione dei prigionieri politici: avverrà la smobilitazione o il rischio di una reazione del TPLF verrà utilizzata per mantenere lo status quo? Se invece avvenisse la smobilitazione il mercato del lavoro potrebbe assorbire tale manodopera? Quando si potrà contare su sistema giudiziario neutro, sull’indipendenza dei media e sulla possibilità di libere elezioni? Queste sono le domande che si traducono in quel “#gameoneritrea”, che racchiude la richiesta di un nuovo corso, apparso su alcuni cartelli durante la visita di Abiy Ahmed in risposta al “This game is now over” pronunciato da Isaias Afewerki dopo la nomina a gennaio del Primo Ministro etiopico in riferimento all’agire del TPLF.

Le implicazioni per la diaspora eritrea
La riflessione però resta ancora più in ombra per quanto riguarda le implicazioni della pace sui richiedenti asilo eritrei in Europa, che finora hanno avuto tassi di concessione dello status di rifugiato relativamente alti (93% nel 2016), in virtù del fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale. Se il governo eritreo avviasse riforme in materia di leva obbligatoria e successivo servizio civile, riducendo così anche gli effetti connessi alla diserzione, verrebbe meno un elemento fondante della richiesta stessa e la conseguenza potrebbe essere una contrazione nel riconoscimento dello status di rifugiato politico, che potrebbe essere compensato da un innalzamento della protezione sussidiaria e umanitaria. Ovviamente queste dinamiche non dipenderebbero solo dall’evoluzione della situazione in Eritrea, ma anche dalle eventuali nuove direttive dell’UNHCR, dalla velocità con cui circolano le informazioni e, quindi, dall’adattamento delle narrazioni da parte dei migranti. Nessun problema si manifesterebbe per coloro che sono già inseriti nel sistema, ovvero che hanno avuto protezione internazionale, mentre diversa è la situazione di coloro che godono di protezione umanitaria, in quanto si potrebbe assistere al mancato rinnovo della protezione, favorendo indirettamente la migrazione di ritorno (anche differita), che potrebbe tradursi in un brain gain per l’Eritrea e attenuare lo spopolamento dovuto alla passata migrazione forzata.

Il vero segmento di popolazione migrante che più potrebbe risentire dell’evoluzione positiva dei rapporti fra Eritrea ed Etiopia, collocandosi appunto nell’angolo cieco anche per la sua qualità di hidden population, è però rappresentato dagli eritrei che si trovano fuori dal loro paese, ma non per forza in viaggio verso l’Europa. In particolare coloro che gravitano intorno ai campi profughi in Sudan ed Etiopia, senza mai aver fatto richiesta di asilo e risultando irregolari, oppure coloro che si trovano nei mezra libici. La loro posizione li rende infatti vulnerabili alle decisioni degli stati sovrani che li ospitano, così per coloro che si trovano in Sudan e in Etiopia potrebbe aprirsi l’opportunità (volontaria o favorita) di un ritorno in patria, mentre per coloro che intendono raggiungere l’Europa, qualora non vengano respinti, potrebbe aprirsi con maggior probabilità la protezione umanitaria rispetto a quella internazionale finora riconosciuta.

Valentina Fusari

21 luglio 2018

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