Liberazione Betancourt, la vittoria di Uribe


Joseph Zarlingo


Il brillante blitz dell’esercito è stato un’iniezione di popolarità e credibilità, sia interna che internazionale, per il presidente colombiano Alvaro Uribe Velez.


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Liberazione Betancourt, la vittoria di Uribe

Il migliore spot politico che Alvaro Uribe Velez potesse immaginare sono state le parole di Ingrid Betancourt: «È un buon presidente». E se tra due anni, alla scadenza della legislatura, Betancourt correrà di nuovo per la presidenza della Colombia, il «problema» non sarà più suo. A meno di improbabili colpi di scena costituzionali nella seconda metà del suo secondo mandato, Uribe ha già messo a segno il «colpo» politico della sua carriera. Non gli basta, probabilmente. Solo pochi giorni fa, il presidente aveva chiesto al Congresso nazionale di emanare in fretta e furia una legge per celebrare un referendum sull’eventualità di anticipare le elezioni presidenziali. Uno dei numerosi scandali di corruzione che costellano la sua carriera come capo di stato, infatti, è arrivato a mettere in dubbio – secondo le indagini dei giudici colombiani – la sua rielezione del 2006. Per avere la possibilità di concorrere per il secondo mandato, Uribe aveva dovuto far approvare al Congresso una riforma costituzionale. Secondo i giudici, alcuni parlamentari dell’opposizione avrebbero accettato di votare sì in cambio di favori politici.
Ora, dopo che le immagini della liberazione di Ingrid Betancourt hanno fatto il giro del mondo, quell’inchiesta non sembra più in grado di azzoppare il migliore amico di Washington a sud del Texas. Il brillante blitz dell’esercito è stato un’iniezione di popolarità e credibilità, interna e, soprattutto, internazionale. Il dossier Betancourt, infatti, aveva trascinato nel gorgo colombiano il principale antagonista di Uribe sulla scena latinoamericana, il presidente venezuelano Hugo Chavez, più volte accusato dalla Colombia e dagli Usa di rapporti quantomeno ambigui con le Farc. Pochi mesi fa, a marzo, un altro blitz dell’esercito colombiano, in territorio dell’Ecuador, aveva spinto i due paesi sull’orlo di una crisi di nervi che, per fortuna, si è limitata a uno scambio di improperi e accuse di caraibica retorica.
Chavez aveva provato, con scarso successo, a «trasformare» la questione Betancourt in un boomerang contro Uribe e, indirettamente, contro le ingerenze degli Usa. Le velleità chaviste di «intervento umanitario» bolivariano, sono state spente con il blitz di lunedì che, anche per il modo in cui è avvenuto, dà un colpo probabilmente definitivo alla credibilità delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia – Ejercito popular. Se saranno confermate le ricostruzioni delle prime ore, quella che era un tempo la guerriglia più longeva [fondata nel 1967] e meglio organizzata del Sudamerica, è ridotta a una federazione di «bande armate», in cui i servizi di intelligence colombiani [addestrati da Washington con i fondi del Plan Colombia, deciso da Clinton] riescono a infiltrarsi fino a sostituirsi alla «catena di comando». La crisi delle Farc matura da almeno dieci anni, dalla presidenza di Andres Pastrana, che aveva cercato di avviare con loro un piano di smilitarizzazione, naufragato anche per le pressioni esercitate da Washington con la «lotta alla droga dal lato dell’offerta». Negli ultimi mesi, però, il crollo è stato verticale, e aggravato dalla morte, sembra per infarto, del loro leader storico, Pedro Marin, alias Manuel Marulanda, detto Tirofijo. Non è escluso, secondo ipotesi di intelligence difficili da verificare, che la liberazione incruenta di Betancourt e degli altri ostaggi sia parte della lotta per la successione al vertice delle Farc. Dove, a quanto sembra, vanno cercate le ragioni del fallimento della mediazione di Chavez.
Di certo c’è che il blitz è stato un ottimo spot anche per George W. Bush, che è riuscito a dimostrare, che la linea della fermezza con quelli che la Casa Bianca considera terroristi almeno stavolta ha pagato. Il candidato repubblicano John McCain ha subito rilanciato, chiedendo al Congresso di approvare il trattato di libero scambio con la Colombia, bloccato dopo le elezioni di mid-term che hanno dato la maggioranza ai democratici. Bogotà, così, può contare su una salda amicizia con Washington, che probabilmente durerà con Obama. Difficile non essere grati a chi ha liberato un’icona dei diritti umani. Anche se non è un buon presidente.

Fonte: Lettera22 e Il Riformista

04 luglio 2008

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