Lea Tsevel, l’avvocata del futuro


il Manifesto


Da israeliana ed ebrea, da oltre quarant’anni Lea Tsevel difende i palestinesi nei tribunali. Una vita tra passato e presente raccontata nel documentario «Advocate» diretto da Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche


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LEA

Avvocata del diavolo, traditrice, difensore dei terroristi. È quello che da 40 anni Lea Tsevel si sente ripetere, Lei che per lavoro difende i palestinesi nei tribunali israeliani. Da israeliana ed ebrea.

Una vita straordinaria che il documentario Advocate di Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche ha raccontato: uscito quest’anno si è aggiudicato il primo premio al film festival israeliano DocAviv, sollevando più di una polemica. La ministra della Cultura Miri Regev, falco dell’amministrazione Netanyahu, non ci ha messo molto a infuriarsi: «Nessun effetto speciale può nascondere che il suo lavoro è contro lo Stato di Israele».

Lei si definisce diversamente: una perdente, ma anche un’ostinata ottimista, convinta che il cambiamento sia possibile. Nata nel 1945 ad Haifa, è stata la prima donna a vedere il Muro del Pianto dopo l’occupazione di Gerusalemme est nel 1967: si era arruolata volontaria nella Guerra dei Sei Giorni.

Sionista convinta, fino al fortuito incontro con un presidio all’università di Gerusalemme che ha saputo dare risposte alle domande che gli effetti dell’occupazione militare stavano suscitando. Entra in Matzpen, storico partito della sinistra marxista e antisionista israeliana, e fa innamorare Michel Warschawski, portandolo con sé dentro la joint struggle, la lotta comune. Che per lei ha come campo di battaglia, da quattro decenni, le aule di tribunale: prima accanto alla pioniera Felicia Langer, poi in prima linea.

Ha difeso politici, combattenti armati, femministe, leader dell’Olp come Hanan Ashrawi e il segretario del Pflp Ahmad Saadat.  Con Lea Tsevel abbiamo parlato in occasione della presentazione di Advocate in Italia, nell’ambito del Biografilm Festival di Bologna.

La sua è una vita lontanissima dall’immagine che si ha della società israeliana e dei suoi sentimenti politici e collettivi. Com’è nata l’idea di raccontarla in un film?

I due registi hanno discusso per anni l’idea. Non è stato strano avere le telecamere intorno, molti dei casi che seguo sono aperti alla stampa. Ho semplicemente continuato a vivere la mia vita.

Il film intreccia passato e presente: la sua adesione come volontaria all’esercito nel 1967, l’incontro con Matzpem, i casi politici più eclatanti dagli anni Settanta in poi. Il tutto sullo sfondo di due casi recenti: il tredicenne Ahmad e la giovane mamma Israa, due palestinesi condannati per tentato omicidio.

È stato un caso quello di concentrare l’attenzione su Ahmad e Israa, sono stata la loro avvocata nel periodo delle riprese. I due registi avevano in mano molto più girato, anche casi civili che sono gran parte del mio lavoro: attivisti israeliani, ricongiugimenti familiari di palestinesi, demolizioni di case. Si sono concentrati su Ahmad e Israa, in qualche modo esemplari della giustizia israeliana. Un sistema doppio che dice una cosa: il re è nudo. Questa realtà va svelata, continuamente. Non so dire quando saremo in grado di cambiare questo sistema, ma è necessario tentare. È questo alla fine il mio lavoro, continuare a farlo nonostante le sconfitte.

Se gli altri la chiamano l’avvocata del diavolo, lei si definisce «un’ottimista». E dopo la sentenza, durissima, emessa contro Ahmad si definisce «avvocata perdente». Alla luce di ciò, ne è valsa la pena?

Ne è valsa la pena. E poteva andare peggio. Penso sia importante esserci, essere presente in questo divenire. Il sistema giudiziario è un’altra faccia dell’occupazione che i palestinesi subiscono. E come israeliana non posso evitarla. Ricordo quando scoppiò il caso della Birzeit University, io ero a Londra. E pensai: devo tornare a casa. È importante esserne parte per mostrare anche questo lato dell’occupazione e cercare di cambiarlo, ancora e ancora. Guardandola da una prospettiva storica, sì, sono una perdente. Gli attivisti di sinistra sono perdenti. Chi combatte l’occupazione è un perdente. Finora. Temporaneamente. La situazione non può durare così, dovrà cambiare per forza.

Il film inizia con una sua intervista alla tv israliana. È il 1999 e lei dice: «Io sono il futuro». Venti anni dopo lo pensa ancora?

Lo penso ancora per il semplice fatto che non vedo altra soluzione se vogliamo vivere qui, crescere i nostri figli qui: uguaglianza e diritti per tutti. Non voglio essere parte di un regime di apartheid. Guardate cosa accade ogni giorno a Gaza e i motivi per cui accade: Gaza è un isola di rifugiati, rifugiati dagli stessi luoghi a cui danno fuoco oggi con i palloncini incendiari. Quella è la loro terra, i loro campi. Il riconoscimento di questa realtà è la soluzione. Per questo dico: io sono il futuro.

Il suo è un linguaggio profondamente diverso da quello dell’opinione pubblica isreliana, genericamente intesa. Quella che nel film compare sotto forma di avvocati dell’accusa, giudici, giornalisti, contestatori: loro dicono terrorismo, lei dice resistenza all’occupazione. Quanto è importante nel suo lavoro restare coerenti con una narrativa?

L’esistenza di due narrative appare anche nelle aule di tribunale. Nel mio lavoro ho a che fare con definizioni come Giudea e Samaria, invece di Territori Occupati, con terrorismo, tradimento, minaccia alla sicurezza. Una pratica quotidiana che si traduce in quotidiana sofferenza e quotidiana oppressione. Nel film non compare ma buona parte del mio lavoro è civile: ricongiungimenti familiari, diritto dei bambini a ottenere la residenza, confisca di terre. Tra i casi che seguo ci sono quelli di cittadini stranieri che sposano palestinesi della Cisgiordania e che non possono lavorare né restare a lungo: Israele cerca di privare i palestinesi di qualsiasi tipo di contatto con l’esterno. Noi siamo quelli che cercano di impedirglielo perché siamo quelli, da israeliani, che hanno la possibilità di farlo.

Eppure questo film ha vinto il primo premio al film festival israeliano DocAviv.

Sorprendente. Però circa 100 famiglie di vittime israeliane del terrorismo hanno firmato una petizione al ministero della cultura perché ritirasse il premio. Un altro gruppo di famiglie, sia palestinesi che israeliane, anche queste di vittime di atti terroristici, ha reagito in direzione opposta: questo film va visto. Il documentario ha sollevato un grande dibattito.

Si sente parte della società israeliana?

Me ne sento parte, per la mia storia, la mia personalità. Quello che dico e faccio lo dico e faccio in quanto israeliana.

Un’israeliana impegnata nella joint struggle, la lotta comune di israeliani e palestinesi. Da israeliana, con il suo bagaglio di privilegi e diritti, come vive l’occupazione?

Non faccio il mio lavoro per i «poveri» palestinesi, lo faccio per me e per noi, perché mi sia possibile vivere qui in futuro, nel posto che amo. Sembra uno slogan ma è questo che sento. Non sto facendo un favore ai palestinesi, non sto facendo la carità. La mia esistenza dipende da questo.

Quanto questa lotta ha avuto effetti sulla sua vita personale e sulla sua famiglia?

Moltissimo, ancora oggi. Ma non potrei né saprei vivere diversamente. Penso all’Olocausto, continuamente, e a quello che ha vissuto la mia famiglia in Polonia, a quella parte della mia famiglia che è scomparsa. Di fronte a ciò, è chiaro per me che l’unica cosa da fare è alzarsi in piedi e parlare. A qualsiasi prezzo. Noi come israeliani non paghiamo questo prezzo. È vero, minacce vengono mosse anche verso di me, ma resto sempre un’ebrea con i miei privilegi.

Ci sono casi in cui invece è riuscita a vincere?

All’interno delle politiche esistenti sì, a volte vinco. Ma nel modificare questo sistema di politiche, no, seppure sia questo il mio obiettivo. È quello che tentiamo di fare con altri avvocati e organizzazioni, un’unica rete con uno scopo comune.

di Chiara Cruciati

Il Manifesto

14 giugno 2019

 

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