Firing Zone 918, villaggi salvi ma non per molto


Giorgia Grifoni - nena-news.globalist.it


La Corte suprema israeliana ha emesso un’ingiunzione per fermare l’ordine di espulsione firmato nel luglio scorso dal ministro della difesa Ehud Barak.


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cisgiord

Salvi, ma non per molto. Sono i circa 1.500 residenti di otto dei 12 villaggi delle South Hebron Hills, la parte più meridionale della Cisgiordania, che Israele vuole ripulire di tutti gli abitanti per farne una zona militare chiusa. Ieri la Corte suprema israeliana ha emesso un’ingiunzione per fermare l’ordine di espulsione firmato nel luglio scorso dal ministro della Difesa Ehud Barak e ha dato 60 giorni di tempo ai legali delle famiglie per presentare un’istanza.

Di “vitale importanza” per le esercitazioni dei soldati di Tel Aviv, la zona a sud di Hebron sulle mappe israeliane è tracciata come “Firing zone 918” e si trova nell’area C dei Territori occupati, sotto totale controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo. Qui, come ha ricordato il portavoce dell’ufficio del primo ministro Mark Regev al New York Times, “abbiamo la totale giurisdizione sul territorio”. Almeno fino a quando non sarà raggiunto un accordo definitivo tra i due stati.

Nel caso specifico, si tratta di un’area di circa 7.500 acri – o 30.000 dunum – intorno alla cittadina palestinese di Yatta. Vuota, secondo le autorità israeliane, popolata da circa 1.800 persone secondo la controparte palestinese. Le frazioni “disabitate” a detta di Tel Aviv, sono 12: Tuba, Mufaqara, Sfai, Majaz, Tabban, Fakheit, Megheir al – Abeid, Halaweh, Mirkez, Jinba, Kharuba e Sarura. Otto di queste, quelle più meridionali, sono minacciate dall’ordine di espulsione: gli abitanti dovrebbero essere trasferiti a Yatta. Le quattro più settentrionali, popolate da circa 300 persone, sono salve.

Tra una frazione e l’altra, e tutt’intorno, decine di insediamenti israeliani e centinaia di coloni ebrei ortodossi. Non si contano più le associazioni e i gruppi di attivisti che sostengono i residenti palestinesi con azioni non-violente, come accompagnarli a lavorare nei campi qualora si trovino troppo vicino a un insediamento ebraico o fare da scudo a quelli che vengono attaccati dai coloni.

L’area C, circa il 61% della Cisgiordania, conta circa 350.000 coloni israeliani, contro una popolazione palestinese che va dai 92.000 – secondo il governo israeliano – ai 150.000 censiti dalle Nazioni Unite. E’ la miniera d’oro dell’edilizia dello Stato ebraico, quella in cui ogni anno vengono autorizzati migliaia di nuovi insediamenti e dove i coloni vengono facilitati a trasferirsi. I rappresentanti dei palestinesi accusano il governo israeliano di attuare una chiara politica di riduzione della popolazione araba nell’area C, ma Tel Aviv, sempre per voce di Mark Regev nega “totalmente che ci sia un disegno del governo” per ripulire l’area C dai palestinesi. Nonostante nella destra israeliana si gridi spesso all’annessione unilaterale. Nonostante, recentemente, il college della colonia di Ariel abbia ricevuto da Tel Aviv lo status di Università.

La battaglia dei villaggi a sud di Hebron non è cominciata certo di ieri: già nel 1999 l’Associazione per i Diritti civili in Israele, per mano del procuratore generale Schlomo Lecker, era ricorsa in appello contro lo sfratto di circa 700 abitanti di 12 villaggi della zona a opera dell’esercito, che ne aveva demolito edifici e pozzi. Grazie a un ordine della Corte suprema, nel 2000 ai residenti era stato permesso di tornare alle loro case. Poi, dal 2005, lo stallo. Lo scorso anno, invece, lo Stato ebraico ha presentato un’istanza, secondo la quale ci sarebbe “una crescente tendenza, dal 2009, ad aumentare e rafforzare la popolazione (locale, ndr) nelle zone C. Il numero degli infiltrati nelle zone chiuse cresce regolarmente, così come la quantità e la qualità delle loro case nel territorio”. Infiltrati, cioè gli abitanti palestinesi della Cisgiordania.

Fonte: http://nena-news.globalist.it
17 gennaio 2013

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