Vita e morte di un prete italiano


Avvenire


Tutti vorremmo poter contare nella nostra vita su un prete così. Perché nel mezzo di una giornata di lacrime e sgomento, di parole sagge e necessarie intrecciate ad altre strumentali e inutili come il grano alla zizzania, rischia di passare inosservata una notizia decisiva per capire il senso di un’esistenza interamente donata in terra lombarda: […]


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Tutti vorremmo poter contare nella nostra vita su un prete così. Perché nel mezzo di una giornata di lacrime e sgomento, di parole sagge e necessarie intrecciate ad altre strumentali e inutili come il grano alla zizzania, rischia di passare inosservata una notizia decisiva per capire il senso di un’esistenza interamente donata in terra lombarda: don Roberto Malgesini era un prete, fino all’ultima fibra della sua umanità. Un prete vero, intendiamo, uno di quelli che ti fanno capire cos’è una vita riuscita, piena. Un uomo giusto al posto giusto, dopo averlo a lungo cercato, e con tale chiarezza interiore e umile determinazione da far intendere infine anche ai più duri di cuore che cos’è una vocazione.

La figura esile, la postura un po’ curva di uno che non s’impone ma preferisce passare inosservato, il candore di un volto che mostra meno dei suoi 51 anni, nelle rare foto una certa luce dentro lo sguardo di uno abituato a guardarti dritto negli occhi. L’impressione di un uomo mite e sereno, riuscito, felice di fare quel che finalmente aveva raggiunto: servire gli altri. Uno che ti fa spazio, ti offre il suo tempo, divide volentieri un pezzo di strada con te senza chiederti chi sei.

Basta un’occhiata, e capisci che un prete così è necessario a tutti, perché tutti siamo poveri, talora miserabili, persino lebbrosi. Bisognosi di misericordia, di incontrare per strada Gesù fatto prete, che riconosce a prima vista la tua piaga – quale che sia – ed è lì per dedicarsi a curarla. Non è di un don Roberto che la nostra vita chiede ogni giorno?

Il bello è che lui c’è davvero, di preti come don Roberto di cui fino a ieri pochi fuori Como avevano sentito parlare ce ne sono tanti: e tutti, come lui, necessari a molti e ignoti alle cronache. Non vogliono far parlare di sé, non cercano visibilità, neppure per la più nobile delle intenzioni, non sentono il bisogno di un profilo social, non si credono rivoluzionari o profeti, e nemmeno meritevoli di un ritratto, un’intervista, un racconto dal vivo (se cerchi don Malgesini online non salta fuori quasi nulla). Non vogliono spiegarti chi sbaglia e chi ha ragione, non dividono il mondo in buoni e cattivi, salvati e perduti. Il tifo lo lasciano ad altri, sanno che c’è, non sono sprovveduti: ma per loro conta solo andare lì dove sanno di essere attesi da chi è escluso dalla giostra del mondo.

E don Roberto – la voce che dicono quasi un sussurro, la mitezza personificata – atteso lo era tutti i giorni: ogni sera da fornai e pasticcieri della città ai quali ritirava l’invenduto per portarlo il mattino successivo a chi vive di niente e spera tutto. Il suo giro quotidiano dentro quella povertà estrema che evitiamo persino di vedere partiva all’alba, perché per strada ci si alza con i primi rumori urbani. E già quel turno di servizio per lui – ci raccontano – arrivava dopo una sveglia all’aurora per stringersi in intimità con Dio adorandolo presente nel tabernacolo della sua chiesa, un dialogo solitario, lungo e silenzioso, che ora comprendiamo meglio quanto fosse essenziale.

Ecco chi era don Roberto Malgesini, ragazzone montanaro di Morbegno, Valtellina, legatissimo ai suoi tre fratelli, ragioniere e poi impiegato in banca, un posto sicuro ottenuto al primo colpo, uno che invece lascia tutto e in seminario si rende disponibile a quella domanda radicale che lo porterà a mettersi accanto all’uomo privato del necessario per vivere, sia cibo o dignità, pronto, lui, a non calcolare privazioni e rischi. Lo fanno mai, i veri samaritani? Lo fa un prete autentico? Si spende tutto per la persona che incontra: chi stando ore nel confessionale, chi con la parola ispirata, chi sul web, se il suo dono è quello, altri nella compagnia ai giovani, agli anziani, agli sposi, o dalla parte degli innumerevoli scarti dell’eugenetica sociale.

Don Roberto ha scelto di stare a contatto con la «carne di Cristo», la stessa espressione di papa Francesco per definire i poveri. A loro non chiedeva i documenti, non si curava di fedine penali e trascorsi poco raccomandabili. Può forse giudicare chi ha scelto l’ultimo posto, invisibile e irrinunciabile a tutti? Chi mette nel preventivo che il dono di sé può anche costare la vita, altrimenti è un dono per modo di dire? La coltellata al collo sferrata dallo sbandato che attendeva quel dono ogni giorno, e un mattino ha invece deciso che doveva regolare un suo misterioso conto personale, è arrivata quando il sacerdote comasco aveva certamente appena contemplato nella sua preghiera del mattino la Vergine Addolorata, la Madre ai piedi della Croce che la Chiesa ricordava ieri. Nel giorno del martirio di don Puglisi. È così che per noi si è accesa improvvisamente una luce calda e bella, che ci sveglia dalla nostra distrazione. È quella di tutti i don Roberto che abbiamo la grazia di trovare per via, cercando nel loro lo sguardo buono di Dio.

 

Francesco Ognibene

mercoledì 16 settembre 2020

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