Una poltrona palestinese all’Onu


Gianna Pontecorboli


I palestinesi ci provano e chiederanno alle Nazioni unite di diventare Stato. Quale stato, con quali diritti e quali doveri, però, ancora ancora nessuno lo sa. Membro a pieno diritto dell’Onu o osservatore come il Vaticano?


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Una poltrona palestinese all'Onu

New York – Pochi giorni fa, i rappresentanti della società civile palestinese hanno consegnato al capo del protocollo dell'Onu una poltrona ricoperta di velluto azzurro, con la scritta ''Palestine'' ricamata sullo schienale. Alla vigilia dell'inizio della sessantaseiesima Assemblea Generale dell'Onu, il dono rappresenta un simbolo preciso e inequivocabile.
Almeno a giudizio di gran parte dei diplomatici, dei politici e degli osservatori quando il grande consesso dei 193 paesi membri chiuderà i suoi lavori, a dicembre, la Palestina sarà uno Stato.
Quale stato, con quali diritti e quali doveri, però, ancora ancora nessuno lo sa. Membro a pieno diritto dell'Onu o osservatore come il Vaticano? Osservatore autorizzato ad avere accesso alla Corte Internazionale dell'Aja con tutti i privilegi di uno Stato sovrano o osservatore con mille diverse fastidiose limitazioni?
La battaglia che si sta preparando per i prossimi giorni e settimane non assomiglia a nessuna delle pur complesse battaglie che si sono combattute negli ultimi anni nel Palazzo di Vetro.
Per cercare di capirla, bisogna partire dai dettagli legali. In base alla carta dell'Onu la richiesta di riconoscimento di uno Stato deve seguire un iter preciso. Si parte da una lettera firmata da un primo ministro o presidente e indirizzata al Segretario Generale dell'organizzazione internazionale, in questo caso Ban Ki-moon. La richiesta deve specificare che il nuovo Stato intende rispettare gli impegni previsti per gli Stati membri ed è in grado di farlo. Il segretario generale esamina la richiesta, ma soltanto tecnicamente, poi passa tutto al Consiglio di Sicurezza. Seduti attorno al grande tavolo a ferro di cavallo, i quindici membri del CS possono respingere la domanda o trasmetterla all'Assemblea Generale con la raccomandazione di accettarla. Se poi la maggioranza dei due terzi dei membri, in Assemblea, vota a favore, il gioco è fatto.
Una seconda strada è quella di presentare una risoluzione all'Assemblea Generale e farla approvare dalla semplice maggioranza dei presenti. Questa alternativa però prelude solo alla creazione di uno Stato osservatore, non a quella di un nuovo membro a pieno titolo.
Attorno a queste procedure relativamente semplici, si svolgerà la settimana prossima un balletto complesso, che avrà come protagonisti non soltanto i palestinesi e gli israeliani , ma anche molti altri comprimari. Nei conflitti internazionali degli ultimi anni, raramente gli interessati sono stati altrettanto numerosi e raramente ciascuno di loro ha avuto in gioco tanti interessi pressanti e contrastanti.
In prima linea, ovviamente, ci saranno i palestinesi. Da quando si è arenato il dialogo con gli israeliani dal quale Obama aveva promesso solo lo scorso anno che sarebbe uscito uno Stato palestinese, il presidente Mahmoud Abbas ha deciso di lanciare la sfida del riconoscimento unilaterale all'Onu. Dopo molti giorni di inconcludenti discussioni con i rappresentanti di Obama e dell'Europa e con gli altri Paesi arabi, Abbas ha confermato di voler procedere per la strada più difficile: rivolgersi al Consiglio di Sicurezza.
Il leader palestinese , che presenterà ufficialmente la sua richiesta venerdi prossimo, lo stesso giorno in cui parlerà dal podio Netanyahu, sa bene di avere molte carte in mano. All'interno dell'Assemblea Generale, i voti a favore di uno Stato palestinese potrebbero essere 120, e forse anche di più. Solo pochi giorni fa, un rapporto del coordinatore speciale dell'Onu per il processo di pace in Medio Oriente ha confermato che l'Autorità Palestinese negli ultimi anni ha costruito le infrastrutture e i servizi necessari per far funzionare uno Stato anche se la mancanza di una soluzione politica frustra l'intero processo. Gli scogli, però,non mancano . E non soltanto tra le mura dell'Onu. L'Amministrazione americana, che ha mandato invano nella regione i suoi migliori diplomatici e perfino Hillary Clinton, metterà sicuramente il veto al Consiglio di Sicurezza. E ancor prima di far arrivare sul tavolo la risoluzione, cercherà forse ogni sorta di cavilli per ritardarne la discussione. Come e quando la richiesta per la creazione di uno stato palestinese raggiungerà l'Assemblea Generale, ancora nessuno lo sa. Lontano da New York, per di più, Hamas è rimasta in silenzio, pronta a trasformare in una vittoria sia il successo sia la sconfitta di Abbas. Secondo i sondaggi, molti palestinesi hanno dei dubbi sui tempi, se non sulla sostanza, dell'iniziativa e temono un taglio degli aiuti americani.
Per queste ragioni, sia il presidente palestinese da Ramallah, sia il suo ambasciatore a New York hanno usato un tono prudente, e ripetuto che la loro iniziativa non vuol chiudere la porta al dialogo.

Sul fronte opposto, anche la strada di Netanyahu non è priva di trabocchetti. Nei giorni scorsi, una serie di memorandum dei servizi segreti israeliani si sono uniti alle richieste già fatte da Ehud Barak e hanno invitato Bibi a cercare di riprendere al più presto le trattative di pace per non rischiare di inasprire ancora la tensione e di isolare ancor di più lo Stato ebraico. Perfino negli Stati Uniti, anche una parte del mondo ebraico si è unita alle critiche per l'intransigenza e la lentezza di Israele nel reagire alla sfida. Al Palazzo di Vetro, d'altra parte, Nethanyahu sa bene che le sue mosse saranno limitate.

Dopo il veto americano, scontato, ciascuno cercherà la sua strada. Obama tenterà di non perdere del tutto la fiducia araba, i 27 paesi europei cercheranno di mostrare una sfuggente unita' in politica estera, la Turchia e l'Egitto tenteranno di proporsi come nuovi leader del mondo musulmano.

Fonte: Lettera22

18 settembre 2011

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