Un venerdì di ordinaria follia


Operazione Colomba


Pastori cacciati dalle terre che solitamente anche la Forza Occupante riconosce come proprietà palestinese. Secondo la polizia, i residenti di At Tuwani non possono andare su quelle loro terre… il fine settimana.


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palestinaoc

Siamo appena usciti di casa per accompagnare i pastori in Khelly, la valle che separa At Tuwani dalla colonia israeliana di Ma’on. “Salam aleikum, kiffhalak?” – e dopo aver stretto la mano siamo lì con loro, in mezzo alle pecore, ad attendere che la volontà di Allah si compia.
Dalla cima dei minareti circostanti giungono gli echi dell’omelia del venerdì che, nell’etere, si confonde. Lunghi silenzi vengono interrotti da brevi scambi di battute in un arabo elementare e scorretto. Ogni tanto qualche sasso viene scagliato per richiamare il gregge.

Con passo lento ma energico ci spostiamo in alto, al di là dei campi.
Centocinquanta pecore stanno ora pascolando a qualche decina di metri dalla colonia. Il confine è segnato da una strada frequentata prevalentemente da israeliani armati o in tuta da jogging. Al di là dell’asfalto, una decina di piccole casette, bianche e disabitate, domina la collina. Loro unica ragion d’essere è sottrarre Terra Palestinese: conquistare, occupare, sfruttare la Terra Promessa.
Nel momento in cui il sole ha quasi raggiunto l’apice della sua parabola, un altro gruppo di pastori compare alle nostre spalle. Le pecore sono ormai più di duecento. Il colono incaricato della sicurezza di Ma’on non tarderà troppo all’appuntamento imposto dalle circostanze. È venerdì.
Dopo qualche manciata di minuti, la profezia appena formulata si avvera. Un pick-up bianco, seguito da una camionetta delle Forze Armate si parcheggia sulla strada che sovrasta la valle. Il nostro ospite è arrivato. È un civile… e porta un M-16 a tracolla. Parla con i soldati, come se fosse il loro capitano. Indica le pecore, la valle, la collina di fronte. Insieme a quelli che ora sembrano i suoi commilitoni, consulta una cartina.
I minuti passano. I militari parlano alla radio. Un colono abbigliato in maniera sportiva sorpassa, senza nemmeno voltarsi, i veicoli maldisposti sulla carreggiata. Ecco, di nuovo, il cicalio della trasmittente. Forse è l’ordine del comandante capo.
Un’altra camionetta si affianca alla prima. Polizia di frontiera. È venerdì.
I tre poliziotti si avvicinano ai soldati. Esteriormente le uniche cose che distinguono gli uni dagli altri sono una divisa leggermente più scura, tendente al grigio e lo stemma di una torretta di avvistamento stampato sulla spalla. La squadra inizia a muoversi facendo indietreggiare i pastori verso valle.
In questo preciso momento mi accorgo che sulla collina alle mie spalle, verso At Tuwani, si è formato un folto gruppo di uomini, donne e bambini. Buona parte del villaggio è presente. Un signore che più volte ha conosciuto la prigione, si avvicina e inizia a parlare con i soldati nella loro stessa lingua. Una signora e suo figlio stanno già pascolando le pecore in fondo alla valle, a poche decine di metri dalla recinzione che i coloni hanno costruito per delimitare un confine illegittimo. Non appena il gregge si avvicina troppo alla base del pendio un poliziotto-soldato scatta verso la donna. Lo seguo, telecamera in mano.
Quando inizio a registrare, il militare sta intimando la donna di indietreggiare. Le dice che deve spostarsi al di sopra della strada sterrata alle sue spalle. “Shwai, shwai” (Piano, piano) – risponde lei, senza muoversi di un passo. Il poliziotto insiste, urta la donna con un verbo aggressivo. E di nuovo: “Shwai, shwai” – implacabile. Lui le dice di nuovo qualcosa in arabo, sbraccia. La donna inizia a indietreggiare, con il sorriso in faccia. Una ragazza, poco più indietro, sta puntando la telecamera dritta negli occhi all’autorità.
“Sai l’inglese?” – chiedo alla divisa
“No”
Arriva un altro poliziotto. Stessa domanda, stessa risposta. La donna ha sempre il sorriso in faccia. Ne arriva un terzo, con gli occhiali da sole. È lui che dà gli ordini.
“Perché state cacciando i palestinesi dalle loro terre?”
“Questa non è terra palestinese. È terra contesa. È terra di nessuno”
“E allora mi potrebbe spiegare come mai i campi sono arati e seminati?”
“Loro vengono qui e fanno le cose illegalmente”
“Anche l’avamposto di Havat Ma’on è illegale ma voi non fate niente al riguardo, giusto?”
“[silenzio]”

In questo momento mi sento forte come la roccia delle montagne, ho fatto il mio dovere. I palestinesi ci chiedono di mettere in evidenza le contraddizioni dell’occupazione militare.

Piano piano il gregge, la donna e suo figlio indietreggiano fino alla strada. Dietro di lei c’è metà villaggio. Diverse ragazze hanno la telecamera in mano. Alcuni uomini parlano animatamente con i soldati. Ben presto, sul campo, arrivano altri internazionali.
Dopo poco ci raggiungono anche due attivisti israeliani. Vogliono capire come mai i pastori sono stati cacciati dalle terre che solitamente anche la Forza Occupante riconosce come proprietà palestinese. Increduli apprendiamo che, secondo la polizia, i residenti di At Tuwani non possono andare su quelle loro terre… il fine settimana. È considerata una provocazione nei confronti degli abitanti della colonia.

Oggi è venerdì, domani è sabato.

J.

Fonte: http://www.operazionecolomba.it
15 febbraio 2013

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