Tribunale italiano per i pirati del Corno d’Africa


Enzo Mangini


Convalidato a Roma l’arresto dei ribelli presi dalla forze speciali britanniche dopo il sequestro della “Montecristo”. I giovani africani rischiano adesso dai dieci ai vent’anni di carcere.


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Tribunale italiano per i pirati del Corno d'Africa

Disorientati, magri, dinoccolati, con addosso pantaloncini e magliette di squadre di calcio provenienti da chissà quale carico, di chissà quale preda tra le tante degli ultimi anni. Così si vedono nelle foto dell’agenzia Ansa i presunti pirati somali arrivati nella notte di mercoledì nella caserma dei carabinieri del quartiere Casilino, a Roma. A scortarli fuori dall’autobus della Marina militare, un gruppo di carabinieri che li aveva presi in consegna a Gibuti, dove erano arrivati dopo il trasferimento dal cacciatorpediniere Andrea Doria. Ieri mattina, alle 9,30, nel carcere di Regina Coeli, era fissata l’udienza di convalida dell’arresto per gli undici pirati fermati dalle forze speciali britanniche lo scorso 11 ottobre a bordo della Montecristo, la nave italiana che era stata sequestrata il giorno prima 620 miglia a nord est delle coste somale. Il giudice per le indagini preliminari dottoressa Pavone ha accolto la richiesta di custodia cautelare in carcere presentata dal sostituto procuratore Francesco Scavo, titolare dell’inchiesta.

Il pm Scavo segue anche le vicende delle altre due navi italiane ancora nelle mani dei pirati, la Savina Cailyn, sequestrata l’8 febbraio con 22 uomini di equipaggio di cui 5 italiani, e la Rosalia D’Amato, bloccata dal 21 aprile con 21 uomini di equipaggio di cui 6 italiani. Secondo la rivista specializzata Maritime Security Review, al momento sono 17 i vascelli sequestrati in Somalia, con 319 ostaggi. Le accuse per i pirati arrivati a Roma sono di possesso di armi, sequestro di persona, danneggiamento e atti di depredazione (l’articolo 1135 del codice della navigazione, con pene dai 10 ai 20 anni di carcere), il tutto aggravato dalla finalità di terrorismo. Le persone coinvolte nell’inchiesta per la Montecristo sono in tutto quindici. Agli undici pirati fermati sulla nave italiana, infatti, si sono aggiunti altri quattro sospettati, due somali e due pakistani, arrestati lunedì 17 dai britannici nel corso dei controlli su una nave iraniana.

Da quello che si apprende, non è ancora chiaro se i due pakistani fossero parte del commando che ha assalito la nave italiana o invece fossero parte dell’equipaggio della nave iraniana liberata dai britannici e dunque ostaggio dei pirati. Su questa nave sono state trovate armi, munizioni, scale con rampini ed equipaggiamenti, tra cui i giubbotti di salvataggio della dotazione di bordo di un’altra nave, la Asphalt Venture, battente bandiera panamense, sequestrata a settembre del 2010 e poi rilasciata dopo il pagamento di un riscatto di 3 milioni di dollari. Secondo gli inquirenti, questi giubbotti potrebbero dimostrare che il gruppo che ha assalito la Montecristo – tutti giovani tra i 20 e i 25 anni – è in attività da almeno un anno, o quantomeno è inserito in una organizzazione più ampia in grado di fornire tutto ciò che serve per tentare un abbordaggio in alto mare.

La Royal Navy, peraltro, ha intercettato e liberato, quattro giorni fa, anche un altro vascello, un peschereccio pakistano, che i somali avevano adattato a “nave madre”, cioè una piattaforma da cui lanciare gli skiff, i veloci motoscafi che conducono gli abbordaggi. Forse i due pakistani vengono proprio da questo ex peschereccio. La tattica delle navi madre ha consentito ai somali di estendere il raggio d’azione delle loro incursioni, che ormai possono arrivare a coprire quasi tutto il settore ovest dell’Oceano indiano, una superficie d’acqua estesa quanto l’intera Europa occidentale. Il controllo di un’area così vasta è molto difficile, nonostante nella zona ci siano tre flotte internazionali: una Nato (operazione Ocean Shield, al momento sotto comando italiano), una dell’Ue (operazione Atalanta) e una formata da una coalition of the willing (Task force 151), più navi da guerra russe, indiane, cinesi e iraniane non inquadrate nelle squadre internazionali.

A vederli così, un po’ spauriti, i giovani somali interrogati a Regina Coeli non sembrano esattamente il terrore dei sette mari. Eppure secondo i dati dell’International Maritime Organization (Imo), la pirateria costa al commercio mondiale circa 60 miliardi di dollari l’anno, tra sequestri, riscatti, costi aggiuntivi per i governi per mantenere le flotte in operazione, costi per gli armatori, premi di assicurazione più alti e sicurezza privata. È chiaro di tutto questo denaro, però, i protagonisti di quello che potrebbe presto diventare il primo processo mai celebrato in Italia per pirateria contemporanea, hanno visto solo qualche spicciolo, poche centinaia di dollari di ingaggio, nella migliore delle ipotesi. Chi guadagna davvero con questo business non rischia la vita affrontando l’Oceano e le navi da guerra su scafi di pochi metri lanciati a tutta velocità.

«Da tempo la pirateria in Somalia non è più una faccenda di pescatori arrabbiati per la devastazione delle loro coste – dice Mark Lowe, chief editor di Maritime security review – Ci sono troppi interessi e troppe capacità, anche logistiche, coinvolte in questo fenomeno». Scotland Yard ha creato poche settimane fa un pool investigativo incaricato di concentrarsi sui flussi finanziari legati alla pirateria. Ne sanno qualcosa i somali che aspettano a via della Lungara un molto probabile rinvio a giudizio? Difficile dirlo in questa fase dell’inchiesta. Proprio dall’inchiesta appena avviata a Roma, dunque, potrebbe arrivare un aiuto insperato per iniziare a sbrogliare la rete di mandanti, finanziatori e affaristi che arma i giovani bucanieri e li spedisce a sciamare sulla vena giugulare del commercio marittimo mondiale.

Fonte: Lettera22

24 ottobre 2011

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