Siria. Niente tregua, nessuna agenda comune


Chiara Cruciati


Nulla di fatto al G20. Ognuno ha il suo obiettivo, spesso divergente pure da quello dei presunti alleati, e nessuno intende scendere a patti.


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Nessun accordo Kerry-Lavrov

Seguire le dichiarazioni sulla Siria arrivate ieri da Hangzhou e dalle conferenze stampa di chiusura del G20 non serve assolutamente a niente: sono le stesse da mesi. Il segretario di Stato Usa Kerry ha ripetuto che le parti si sono arenate su «un paio di questioni delicate» e che comunque il dialogo non si chiude; Mosca ha ribadito che l’ostacolo è «tecnico», la distinzione tra milizie terroriste e opposizioni legittime. Andate ad aprire i giornali di un mese, un anno, due anni fa e cercate le differenze.

Al G20 cinese la Siria avrebbe dovuto essere argomento di punta. In effetti lo è stata: a margine degli incontri ufficiali ne hanno discusso tutti. Il presidente Usa Obama è rimasto chiuso con il russo Putin per un’ora e mezzo domenica. E ieri è toccato a Kerry e al ministro degli Esteri Lavrov. Nulla di fatto.

E se Putin dispensa ottimismo (le posizioni «contro ogni previsione si sono avvicinate», accordo «tra pochi giorni»), Obama imputa l’ultimo di una lunga serie di buchi nell’acqua alla «mancanza di fiducia» tra le parti: «Non abbiamo ricucito queste gravi divergenze nel modo che riteniamo possa funzionare». Il sipario si abbassa con la promessa di intensificare il dialogo per il cessate il fuoco.

La verità è un’altra: a mancare non è la fiducia, ma agende comuni. Nella guerra siriana ognuno ha il suo obiettivo, spesso divergente pure da quello dei presunti alleati, e nessuno intende scendere a patti.

I russi vogliono accesso al Mediterraneo, il ritorno da superpotenza in Medio Oriente e le mani nella futura ricostruzione (possibile se al potere resterà Assad o un suo comprimario); gli iraniani l’unità della Siria, parte dell’asse sciita; i sauditi la testa dell’attuale presidente e la longa manus sunnita; i turchi la distruzione della kurda Rojava; le opposizione islamiste (le sole rimaste) una Siria che non sia né laica né democratica, ma base per un califfato sunnita.

E i confusi Usa una Siria gestibile e un ordine mediorientale in cui gli alleati – Israele, Turchia e Golfo – vadano a braccetto per il bene di Washington, senza paesi-canaglie a disturbare gli affari.

Per cui discutere è esercizio di retorica. La tregua non serve alla guerra di tutti contro tutti, per questo non viene raggiunta. Se davvero si volessero far tacere le armi basterebbe che l’asse turco-saudita smettesse di armare le opposizioni e che Mosca non facesse più decollare i Mig.

E in Siria si muore. Anche qui, come nelle stanze delle diplomazie mondiali, non cambia nulla: si muore sempre, di assedio governativo, di attentati Isis, di attacchi dei “ribelli” e ora di raid turchi. Ankara ha provato a brillare di luce propria al G20, offrendo come scalpo quella che definisce la «pulizia» della frontiera dalle gang dell’Isis: 91 km di confine ora inaccessibili allo Stato Islamico, quello che da Jarabulus, principale via di transito di uomini e armi, se n’è andato senza sparare un colpo.

Strana strategia militare quella dell’invincibile macchina da guerra del “califfo”, che si ritroverebbe senza punto d’accesso con l’esterno, se non via Iraq.

Ad Obama, amico tradito, e Putin, amico ritrovato, il presidente turco Erdogan ha chiesto ancora una zona cuscinetto nel nord della Siria e una tregua ad Aleppo entro l’11 settembre, la festa islamica del Sacrificio. Nel frattempo ci si può sparare e Ankara lo fa allargando il fronte nord e portandosi a 50 km dalla città su cui domenica il governo di Damasco ha stretto un nuovo assedio dopo quello di luglio, riprendendosi la base di Ramousa e tagliando i rifornimenti ai “ribelli” nei quartieri orientali.

Nel frattempo l’Isis, che da Jarabulus scappa senza combattere, ieri ha fatto strage di civili nelle zone controllate dal governo: almeno 54 morti nella città costiera di Tartus, nei sobborghi di Damasco, nella centrale Homs e nella città nord-orientale di Hasakah, controllata anche dalle Ypg kurde. A Tartus (dove a maggio Daesh aveva ucciso 184 persone) un’autobomba è esplosa sul ponte Arzoneh (nella foto LaPresse) e, all’arrivo dei soccorsi, un kamikaze si è fatto saltare in aria: 38 morti. A Damasco colpito il quartiere di Sabbourah: 3 vittime. Ad Homs un’autobomba ad un checkpoint nel quartiere alawita di al-Zahra ha ucciso 4 persone. Infine, Hasakah: una moto imbottita di esplosivo ha provocato 8 morti.

Fonte: http://nena-news.it

6 settembre 2016

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