Sbarcare a Tripoli?


Enzo Mangini


La Lega Araba pensa a una no-fly zone sulla Libia mentre cresce la tentazione di un intervento militare internazionale per fermare la repressione.


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Sbarcare a Tripoli?

In una intervista rilasciata all’emittente britannica Channel 4, il presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai ha consigliato all’Occidente di «stare alla larga dalla Libia». Seduto sulle baionette della Nato, Karzai dice che un eventuale intervento straniero in Libia avrebbe conseguenze disastrose. Dall’opposizione libica arrivano segnali contrastanti, almeno a giudicare dalla stampa internazionale. Il Washington Post riferisce che a Bengasi i leader della rivolta, o quantomeno una parte di essi, starebbero pensando a chiedere invece un appoggio militare, specialmente se le truppe regolari e mercenarie ancora fedeli a Gheddafi dovessero continuare con gli attacchi. Poiché questa è più di una semplice eventualità, non è improbabile che arrivi davvero una richiesta di aiuto, fosse anche solo per scongiurare i bombardamenti aerei come quelli che stanno colpendo Barga e altre città. Una situazione talmente grave che perfino la Lega Araba, secondo Al Jazeera, sta valutando l'ipotesi di decretare una no-fly zone sui cieli libici, assieme all'Unione africana. Sarebbe un gesto senza precedenti e però essenzialmente politico visto che nessuno stato arabo ha la possibilità di fare eventualmente rispettare una no-fly zone.

I ministri degli esteri dell’Ue discuteranno anche di questo, il 10 marzo, a Bruxelles, nel vertice di emergenza convocato da Catherine Ashton, Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza.

Anche se ufficialmente l’Alleanza atlantica si limita a «monitorare la situazione e a prepararsi per qualsiasi evenienza», i comandi, intanto, lavorano. Le ipotesi plausibili sono diverse, secondo uno schema di escalation che tiene conto anche delle possibili ripercussioni politiche di un’eventuale azione militare. Il primo problema è chi potrebbe muoversi: l’Italia non ha alcuna intenzione di farlo direttamente, troppo pesante l’eredità coloniale, troppo stretti i rapporti tra la dittatura e il governo italiano, troppo debole il governo stesso, costretto dalla pressione internazionale a cambiare linea mentre Gheddafi faceva massacrare i suoi concittadini. Anche la Francia ha escluso interventi militari. Restano, ovviamente, gli Stati Uniti che in queste ore stanno posizionando davanti alla Libia una portaerei, con relativo gruppo di navi appoggio, e una portaelicotteri d’assalto del corpo dei Marines. Congelato il trattato di amicizia con Gheddafi, l’Italia potrebbe però mettere a disposizione la base di Sigonella, in Sicilia: a poche ore di volo dalla Libia e perfettamente attrezzata, sarebbe eccellente come «piattaforma» per le operazioni nella Tripolitania. Per la Cirenaica, invece, c’è la base Nato di Souda, a Creta.

Le opzioni possibili vanno da una «semplice» no-fly zone fino ad attacchi diretti contro le unità di Gheddafi, una volta chiarito un dettaglio tutt’altro che secondario: come distinguerle da quelle degli insorti?

Le capacità militari libiche, anche se non conosciute nei dettagli, consigliano estrema prudenza. Secondo una fonte militare, dall’inizio della rivolta i comandi stanno analizzando immagini e dati provenienti dai satelliti per capire, per esempio, se e quante batterie antiaeree sono davvero operative e quanti caccia libici siano in grado di volare. I piloti libici che hanno disertato nei giorni scorsi sarebbero una buona fonte di informazione per le intelligence militari della Nato, che hanno bisogno di notizie aggiornate sulla «qualità» dell’aviazione militare di Gheddafi e sullo stato delle difese delle basi aeree.

La seconda opzione prevede che oltre alla no-fly zone, si possa creare una no-sail zone, cioè interdire il movimento della marina libica [peraltro equipaggiata in parte dall’Italia]. Di fatto, questa opzione è già in parte realizzata, visto che nei porti libici arrivano navi anche militari di altri paesi per evacuare i cittadini stranieri rimasti bloccati nel paese. Sono operazioni rischiose, perché, come dimostra il caso dei marinai olandesi sequestrati dalle forze di Gheddafi, è facile che accadano «incidenti» capaci di far salire improvvisamente la tensione. Gheddafi, aggrappato ai kalashnikov dei suoi mercenari [25 mila secondo la Lega libica per i diritti umani], non aspetta altro che potersi presentare di nuovo come il campione dell’anticolonialismo e screditare così l’opposizione facendo appello perfino alla solidarietà araba, ovvero a quella degli altri regimi ancora in sella.

Il terzo livello di un eventuale intervento straniero prevede infine attacchi diretti contro le truppe di Gheddafi, specialmente contro le brigate dell’esercito regolare che ancora rispondono agli ordini del colonnello. Il rischio tecnico e politico di questa opzione è che, com’è successo spesso in Afghanistan nei primi mesi del 2001, sia impossibile distinguere le unità «nemiche». Questa ipotesi, naturalmente, sarebbe la più pesante dal punto di vista politico, per la possibile reazione dei governi arabi e della piazza – non necessariamente nella stessa direzione, peraltro. Il rischio di contraccolpo è forte, specialmente nei riguardi dei regimi ancora «amici»: se domani fosse il governo saudita a trovarsi in quella che è oggi la posizione di Gheddafi? Due pesi e due misure di nuovo in nome del petrolio?

Dal punto di vista politico, l’ipotesi del presidente venezuelano Hugo Chavez potrebbe essere una soluzione, ad alto costo politico per lo stesso Chavez, perché per quanto il suo ruolo internazionale potrebbe uscire rafforzato, non è certo facile giustificare una via d’uscita a un dittatore che ha fatto bombardare il «suo» popolo. Dal punto di vista militare ci sono ovviamente opzioni meno eclatanti e più «discrete». I britannici hanno già usato reparti speciali del Sas per organizzare l’evacuazione dei propri cittadini e non è difficile immaginare che altri piccoli gruppi di reparti speciali possano entrare in Libia, specialmente se, grazie alle missioni umanitarie per soccorrere i profughi [ed evitare arrivi massicci sulle coste europee], il controllo dei confini libici passa di mano ai paesi della sponda nord del Mediterraneo. Di certo c’è qualcuno che preme per una decisione rapida: sono le compagnie petrolifere preoccupate per gli impianti e per il controllo dei pozzi di greggio. Minacciando gli impianti petroliferi, Gheddafi sa, e probabilmente spera, di poter provocare una reazione isterica che spinga l’Europa e gli Stati Uniti a mettersi in trappola, senz’altra scelta che intervenire: per i diritti di estrazione e non per quelli dei cittadini libici che combattono contro la dittatura.

Fonte: Lettera22, Carta

3 marzo 2011

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