Samer Issawi: un uomo libero


NEAR EAST NEWS AGENCY


Intervista di Nena News all’ex detenuto palestinese, in sciopero della fame nel 2012 per 278 giorni. La battaglia in carcere e le speranze per il futuro della Palestina.


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Incontriamo Samer ad Issawiya, zona Est di Gerusalemme, dove il 24 dicembre scorso è tornato da “eroe” – anche se lui preferisce definirsi un “uomo libero”. Ci racconta poco delle angherie subite durante i suoi 278 giorni di sciopero della fame. Preferisce soffermarsi sulle motivazioni che lo hanno sorretto durante la protesta, sul suo volersi fare megafono delle richieste dei detenuti politici e di tutti coloro che soffrono per ciò che lui definisce “le azioni terroristiche di Israele inflitte contro un popolo che non ha armi sufficienti per poter rispondere, se non l’essere forti del proprio diritto di resistere e di voler essere liberi.”

“Sono stato arrestato nel 2012 mentre andavo in Cisgiordania, in un villaggio parte di Gerusalemme, ma separato dalla città dal muro. Per me non c’è nessuna differenza tra Gerusalemme e la Cisgiordania: tutto è Palestina. L’occupazione israeliana non dovrebbe dividerci. Quando ho saputo che mi avrebbero dato altri 20 anni, ho deciso di iniziare lo sciopero della fame e di continuare fino a che non fossi tornato a Gerusalemme. Vivo o morto. Volevo dare un messaggio forte agli israeliani: Gerusalemme è una città palestinese e araba, abbiamo tutto il diritto di stare qui. È l’occupazione israeliana a doversene andare. Volevo che attraverso la mia storia tutto il mondo sapesse cosa subiscono i detenuti palestinesi”.

“Mi piacerebbe far sapere ai 100 leader mondiali che sono stati in Sud Africa per i funerali di Nelson Mandela, che anche lui venne trattato da terrorista – continua Samer – Dopo 30 anni gli hanno dato il premio Nobel per la pace, considerandolo un combattente per la libertà. Vorrei che quei 100 leader sapessero che ci sono 5.000 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui donne e bambini, che stanno combattendo per la loro libertà e per la liberazione della Palestina. Vorrei che facessero pressione su Israele affinché fossero rilasciati”.

Lo sciopero della fame è storicamente uno degli strumenti di protesta usati dai detenuti per chiedere il riconoscimento dei propri diritti. Dagli anni ’70 ad oggi i motivi della protesta sono stati vari: dal diritto allo studio al prolungamento del tempo fuori dalle celle. Nel 2012 con un grande sciopero è stata chiesta la fine dell’isolamento di 16 prigionieri, un isolamento che andava avanti da 12 anni. Nelle carceri israeliane le condizioni di vita sono pessime. Soprattutto per i bambini arrestati, a cui non viene concesso di studiare.

“Le cure mediche sono carenti, nel 2013 in carcere sono morti 4 detenuti – aggiunge Samer – Due di loro avevano il cancro e non sono stati curati per tempo, nonostante le autorità israeliane fossero a conoscenza delle loro gravi condizioni; il terzo è stato picchiato e torturato fino alla morte nella stanza degli interrogatori. Il quarto è stato arrestato quando era già in condizioni di salute molto gravi. Lo hanno rilasciato solo quando erano sicuri che sarebbe sopravvissuto ancora poco e che non avrebbe potuto curarsi. È morto a una settimana dal suo rilascio. Solo una parte delle violenze che mi sono state fatte e che vengono costantemente fatte contro i prigionieri palestinesi sono visibili: alcune cose non possono essere catturate da una telecamera o da una macchina fotografica”.

“Durante il mio sciopero della fame le mie condizioni fisiche erano molto peggiorate. Il dottore disse alle autorità israeliane che il mio cuore si sarebbe potuto fermare da un momento all’altro. Mi avevano proposto di andarmene a Gaza o in qualsiasi altro Paese in Europa, ma ho rifiutato. Mentre ero in ospedale mi hanno ammanettato mani e piedi al letto. I soldati che mi piantonavano, mangiavano e bevevano davanti a me per tutto il tempo. Continuavano a ripetermi che non avrei ottenuto mai quello che chiedevo. ‘Hai due possibilità – mi dicevano – O il carcere per 20 anni o la morte. E se muori a nessuno importerà di te’. Non li ho ascoltati. Continuavo a credere che dovevo tornare dalla mia famiglia e a pensare a tutti i leader delle rivoluzioni in tutto il mondo, a come hanno combattuto per i loro diritti, la loro libertà e per la libertà dei loro popoli”.

Poi, l’isolamento: “Mi hanno separato dagli altri detenuti. Ero già debole fisicamente e loro volevano indebolirmi anche mentalmente, ma io non li ascoltavo e smettevo anche di bere per diversi giorni, ero io che indebolivo loro. Con la mia storia molti nel mondo sono venuti a conoscenza delle violazioni dei diritti umani nei confronti non solo dei prigionieri politici, ma di tutto il popolo palestinese e di tutto ciò che, all’interno dei territori occupati, è palestinese. Anche se venivo torturato fisicamente e mentalmente mi dava forza sapere che avevo il supporto di tante persone. Accettare di vivere sotto occupazione vuol dire non avere dignità, vivere da schiavi. La mia scelta è stata di continuare lo sciopero della fame, perché sono un uomo libero”.

“Il futuro? – conclude Samer – Vorrei cooperare con i giovani di tutto il mondo, affinché conoscano la situazione della Palestina. Vorrei che quanti vengono a Gerusalemme, per visitare la città, possano comprare i prodotti dai palestinesi e boicottare l’economia israeliana, anche questo è un modo di combattere il terrorismo di Israele e supportare la causa palestinese. Dovremmo ricordarci di essere umani e comportarci di conseguenza: è la nostra umanità ciò che ci rende creature speciali a questo mondo”.

Di Teresa Batista

Fonte: Nena News

28 gennaio 2014

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