Quell’esercito di schiavi senza nome che lavora per tutti noi


Articolo 21


Sembra non avere fine la strage di braccianti sui campi della Puglia.
Sono morti in 12 oggi, sulle strade vicino a Lesina in provincia di Foggia.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
4311.0.459732789-0026-kJCE-U30104474227156MC-593x443@Corriere-Web-Sezioni

Sembra non avere fine la strage di braccianti sui campi della Puglia.
Sono morti in 12 oggi, sulle strade vicino a Lesina in provincia di Foggia.
Le dinamiche non sono ancora certe, ma viaggiavano stipati in un furgoncino. Il mezzo di fortuna e la targa bulgara fa pensare che fossero stati costretti lì da un caporale: è accertato infatti dagli inquirenti il ruolo della mafia bulgara nello sfruttamento dei lavoratori stagionali.
Due giorni fa 4 giovani africani: Amadou Balde, Ceeay Aldje, Moussa Kande. Il più giovane aveva 20 anni e il più “anziano” 27. Di uno non si conosce il nome. Tornavano dalla raccolta dei pomodori, compressi nel retro di un furgoncino senza finestre. Sono stati travolti da un tir e quel trasporto improvvisato è diventata una trappola mortale. Non si conosce il guidatore, probabilmente il caporale, che forse è fuggito.
La fine delle loro giovani vite non può non interrogarci su quale sia il costo della nostra e quanto costi agli altri. Gli “altri”, hanno nomi impronunciabili per noi, e così forse, per la nostra incapacità di associare un suono ad un viso, ad un’identità, ad una storia, ci convinciamo che a partire dal nome le loro vite valgano meno. E che la notizia della morte di giovani migranti sui campi, sia una non notizia.
Allora cambiamo punto di osservazione: mettiamo a fuoco la fetta di anguria che abbiamo mangiato davanti al mare; l’insalata con cui abbiamo cenato la sera per non ingrassare (magari quella in busta, è estate, è più pratica); le pesche con cui abbiamo fatto la sangria da offrire agli amici; l’aranciata che piace tanto a nostro figlio e che noi compriamo “tutta italiana al 100%”.
Ecco: quel cibo, quell’anguria, quella pesca, quell’arancia, sono state toccate da schiavi, raccolte da schiavi con la schiena spezzata, le ossa a vista che tirano la pelle bruciata dal sole, da schiave violentate sui campi e che sui campi abortiscono i figli dei caporali.
Ecco, forse così ho catturato la vostra attenzione, non lo so. Perché è agosto e l’anguria ci piace e chissenefrega.

Ma ci sono gli “altri” ad aspettarci a settembre, al supermercato. Quando andremo a comprare le mele e col fresco, forse, potremo pensare a quell’esercito di 430mila persone, sfruttate, schiavizzate, sommerse, che producono un giro d’affari di 4,8 miliardi di euro.
A questi lavoratori e lavoratrici, soprattutto africani, non vengono versati i contributi cui hanno diritto: il totale dell’evasione contributiva è di 1,8 miliardi.
Lo dice il Quarto rapporto su agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Flai Cgil, all’interno del quale troviamo un altro dato significativo: il lavoro dei migranti è indispensabile per l’agricoltura italiana. Questo vale da Nord a Sud, da Bergamo alla Sicilia: il fenomeno del caporalato, dunque il fenomeno della mafia in agricoltura, riguarda tutto il Paese.
La mafia piace a tutti, dalle Alpi all’Etna: il 25% delle aziende agricole ricorrono all’intermediazione dei caporali.
Il 25% è pari a 30mila aziende. T-R-EN-T-A-M-I-LA.
Il 40% di queste 30mila aziende ricorre a caporali contigui alla mafia, il restante 60% a caporali che attivano meccanismi di intermediazione e sfruttamento ma senza collegamenti con i clan.
L’Inps ci dice che nel 2017 nel settore agricolo sono stati regolarizzati circa 300mila migranti che, secondo le stime, rappresentano il 28%, cioè meno di un terzo del totale degli addetti.
Dalle insalate di Bergamo alle angurie di Nardò, passando per le arance di Rosarno, il fenomeno del caporalato e dell’economia “non osservata” in agricoltura è un comune denominatore.
Per questo Flai Cgil insiste che venga sottratto ai caporali il servizio “navetta”: la soluzione sarebbe garantire un traposto pubblico efficiente, ma il tavolo attivato in Prefettura, dice Monica Accogli segretaria di Flai Cgil Lecce, è stato attivato con un nulla di fatto. Inoltre, ricorda, Coldiretti non è collaborativa nel fornire i dati necessari per mappare il fenomeno. Questo non sorprende, perché abbiamo visto che il 25% delle aziende agricole ricorre a caporali.
Eppure una delle prime dichiarazioni del governo Conte è stata per criticare la legge 199 del 2016, pensata proprio per combattere il caporalato.
Per il ministro dell’interno Salvini “è una legge che più che semplificare, complica” e per il ministro all’agricoltura Gian Marco Centinaio “va decisamente cambiata”.
Invece la legge, secondo i sindacati e varie associazioni tra cui Libera, va resa ancora più efficace per garantire trasparenza a tutta la filiera produttiva nel settore agricolo, dando ai consumatori l’arma della scelta: scegliere le aziende che rispettano i protocolli di trasparenza e legalità significa colpire al portafoglio gli illegali.
Ora due numeri: sono 171mila i migranti arrivati in Italia nel 2017. E sono 430mila quelli sfruttati sui campi. Quale dei due numeri vi suggerisce che si tratti di un’emergenza da affrontare con leggi speciali?
Ecco, non è quella che pensate voi. Il ministro dell’Interno ha deciso che è l’altra. Perché nella politica a colpi di tweet, dare addosso al “nero” produce tanti “cuoricini”, aumenta la propria brand reputation sul web, gli hashtag volano, si da l’impressione di essere politicamente efficaci.
E’ questo che piace ai social-elettori, mangiatori di angurie non certificate, raccolte da “neri” senza volto.

www.articolo21.org

6 Agosto 2018

 

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento