Palestina. Il 1 aprile si aprono le porte della Corte Penale dell’Aia


Chiara Cruciati - Nena News


L’annuncio del segretario generale Onu Ban Ki-moon: tra tre mesi Ramallah potrà presentare accuse contro Israele. I timori di Washington e Tel Aviv. Netanyahu punisce Abbas e blocca il trasferimento delle tasse.


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corteaia

 

Il primo aprile la Palestina potrà muovere accuse ufficiali allo Stato di Israele di fronte alla Corte Penale Internazionale. L’annuncio arriva dal Palazzo di Vetro: il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ieri sera ha annunciato che la Palestina – dopo aver ratificato lo Statuto di Roma – sarà pronta a trascinare Tel Aviv di fronte alla giustizia internazionale tra tre mesi.

L’adesione alla Corte Penale e il riconoscimento della sua giurisdizione permetteranno al governo di Ramallah – dicono fonti della Corte – di chiedere l’avvio di indagini sui crimini commessi da Israele nei Territori Occupati, a partire dalla scorsa estate. In particolare di quelli commessi dal 13 giugno, giorno in cui cominciò la campagna militate contro la Cisgiordania a seguito della scomparsa di tre coloni vicino Hebron: raid quotidiani nei villaggi e le comunità dei Territori, quasi mille arrestati, 17 palestinesi uccisi. Meno di un mese dopo l’esercito di Tel Aviv lanciò l’offensiva contro la Striscia, un attacco che ha provocato 2.300 vittime, l’80% delle quali civili (dati Onu).

Il tribunale ha giurisdizione per tutti gli atti compiuti da individui che rientrano nella categoria di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, verificatisi dopo il primo luglio 2002, quando lo Statuto di Roma è diventato effettivo. Ne fanno parte 122 paesi. A risaltare è l’assenza di governi come quello statunitense e israeliano. Nei giorni scorsi le reazioni di Washington e Tel Aviv hanno occupato le pagine dei giornali: “un atto controproducente”, secondo la Casa Bianca, che ancora parla di un negoziato vuoto come dell’unico strumento risolutivo del conflitto; una decisione per cui il popolo palestinese va punito, per Tel Aviv.

Il governo Netanyahu, impegnato in un’ampia campagna elettorale in vista delle elezioni anticipate di marzo, non può permettersi alcun cedimento di fronte ad un’opinione pubblica che di anno in anno si sposta più a destra. Nei giorni scorsi un premier furibondo ha chiarito che non consentirà mai che anche un solo soldato israeliano possa diventare un imputato di fronte alla Corte Penale Internazionale: “Non permetteremo che i soldati e gli ufficiali dell’Idf vengano trascinati all’Aia. Sono i leader dell’Anp a dover essere giudicati per l’alleanza con i criminali di guerra di Hamas”. Una dichiarazione a cui sono seguite le già note minacce di taglio dei fondi all’Autorità Nazionale Palestinese, che vive di aiuti internazionali e delle tasse che Israele raccoglie e poi gira alle casse palestinese, secondo quanto previsto dal Protocollo di Parigi del 1995.

Una mossa non certo nuova: in passato più volte Tel Aviv ha bloccato il trasferimento delle tasse palestinesi all’Anp, come forma punitiva o mera pressione politica, per costringere Ramallah a piegarsi al volere del potente avversario. Le conseguenze, in passato, sono state pesanti: il mancato arrivo delle tasse ha più volte impedito all’Anp di pagare gli stipendi dei 150mila dipendenti pubblici (che a Ramallah costano 200 milioni l’anno), provocando rabbia e insofferenza nella popolazione. E oggi Tel Aviv ci riprova: sabato Israele – nonostante il parere contrario dello stesso presidente israeliano – ha congelato 125 milioni di dollari di tasse, un atto definito dall’Anp “pirateria”.

I timori che disturbano i sonni dei governi statunitense e israeliano sono fondati, seppure sia difficile che un’eventuale condanna della Corte Penale per gli atti commessi da Tel Aviv porti ad efficaci conseguenze. Lo spiega bene Robert Fisk, su Counterpunch: a far tremare le vene ai polsi delle due amministrazioni è ancora una volta l’incapacità di gestire la lotta di liberazione palestinese, che da sempre ha avuto come faro il diritto internazionale. I palestinesi chiedono questo, l’applicazione del diritto internazionale che riconosce loro il diritto all’autodeterminazione e la fine dell’occupazione.

“Da anni i palestinesi chiedono giustizia – scrive Fisk – Sono andati alla Corte dell’Aya per vedere smantellato il muro dell’apartheid. Hanno vinto, ma Israele se n’è fregato. Ogni palestinese sano, dovremmo pensare, avrebbe già abbandonato da tempo queste iniziative pacifiche. Eppure questi palestinesi disgraziati persistono, dopo gli insulti più umilianti, nel ricorrere al diritto internazionale per risolvere il conflitto con Israele”.

“Gli Stati Uniti, ovviamente, hanno rifiutato di aderire alla Corte Penale. E per una buona ragione: come gli israeliani, Washington teme che i propri soldati e i propri funzionari governativi saranno accusati di crimini di guerra. Pensate all’waterboarding, a Abu Ghraib, al rapporto sulle torture della Cia”.

Fonte:  http://nena-news.it

7 gennaio 2014

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