Obama preme sulla Cina: "Serve accordo globale, anche sul clima"


L'Unità


Un accordo strategico, cooperazione a tutti i levelli. E’ quanto chiede il presidente americano Barack Obama alla vigilia dell’importante summit Usa-Cina.


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Obama preme sulla Cina: "Serve accordo globale, anche sul clima"

Cooperiamo, dice, il capo della casa Bianca, per migliorare il clima, combattere la minaccia nuclare e migliorare la crescita. Lo fa in un discorso In apertura del vertice sul dialogo stretegico economico al via oggi a Washington.  

L'aspetto più importante è sicuramente quello sul clima, visto che al G8 c'era stata solo un'intesa di massima. L'impegno del presidente degli Stati Uniti, paese che fino a qualche anno fa ha apertamente osteggiato gli accordi per ridurre le emissioni, è particolarmentre importante e parte dalla consapevolezza che quel che faranno Usa e Cina per l'ambiente, viste le dimensioni e l'importanza dell'apparato produttivo, determinerà l'ambiente in tutto il globo. Si parte insomma dal clima per una risposta globale per un futuro energetico "pulito, sicuro e prospero".

Poi tocca alla crescita economica. Per Obama Stati Uniti e Cina dovrebbero "cooperare per avere una crescita economica equilibrata e sostenibile, togliendo più persone dalla povertà e creando maggiore ricchezza". "L'attuale crisi – dice il leader Usa – ha chiarito che le scelte che facciamo all'interno dei nostri confini si riflettono per tutta l'economia globale e questo è vero non solo per New York e Seattle, ma anche per Shanghai e Shenzhen. Per questo dobbiamo impegnarci in un forte coordinamento bilaterale e multilaterale". A quanto pare nel vertice sarà pressante anche l'invito alla Cina a fare fronte comune contro la minaccia nuclare in Nord Corea e in Iran.

 IErmete Realacci, responsabile per l'Ambiente nel Pd, ha commentato così l'appello di Obama sul clima: "Il presidente Usa non perde occasione per mettere la questione climatica al centro della sua azione politica. Mentre Berlusconi spenti i riflettori del G8 de L'Aquila e dimenticate le belle parole da fiction ad uso dei media con i fatti dimostra di andare esattamente nella direzione opposta". «Su clima e ambiente le azioni dell'esecutivo, dal decreto anticrisi al Dpef, sono a dir poco desolanti. E mentre i Governi dei principali paesi occidentali si stanno muovendo con determinazione per imporre obiettivi di riduzione della CO2 importanti e per dare una svolta verde alla loro economia, l'Italia su questo fronte ancora annaspa e – nota – tentenna». Per Realacci, «è questo il modo per condannare l'Italia ad una posizione di eterna retrovia, e per tirare il freno alla possibilità di affrontare
la crisi e rilanciare l'economia a partire dall'economia verde, oltre a precludere al nostro paese la possibilità di essere protagonista in una delle sfide più importanti per il futuro».

Fonte: l'Unità

27 luglio 2009

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Commento – Contraddizioni estreme del rapporto Usa-Cina

di Joseph Halevi

Al vertice Cina-Usa che si apre a Washington Pechino ha inviato una delegazione di 150 persone.  Si incontrano da un lato un paese, la Cina, assolutamente bismarckiano, ove l’accumulazione industrial capitalistica però non è  un fatto nazionale bensì avviene con il concorso voluto ma vieppiù obbligato del capitalismo mondiale. Dall’altro abbiamo gli Stati Uniti, fulcro e leva dell’espansione cinese all’estero per via dell’accumulo delle passività finanziarie Usa nelle casse delle istituzioni cinesi. La Cina è fortemente colpita dalla crisi. Ormai le persone rispedite alle zone rurali superano di molto la cifra di 20 milioni stimata agli inizi di quest’anno e vi sono delle vere e proprie rivolte contro i licenziamenti. La crisi viene fronteggiata rilanciando l’industria pesante ed attraverso l’uso, nonchè il rigetto, indiscriminato della forza lavoro fluttuante ed immigrata dalle zone arretrate. Ciò comporta un ulteriore schacciamento dei redditi salariali sul valore del prodotto nazionale (in Cina il salario come quota del prodotto è in calo da circa venti anni). Questo significa che il ruolo della Cina come area di massima produzione di scala a basso costo monetario sul piano mondiale si sta ampliando nel corso stesso della crisi. Anche negli Usa i salari si restringono ma per ragioni legate ai fallimenti ed a chiusure di aziende che continuano ad indebolire l’apparato produttivo statunitense incentivando così le delocalizzazioni e il subappalto (outsourcing) verso la RPC.  Oggi l’outsourcing da parte degli USA coinvolge in maniera crescente anche i settori dei macchinari.
      Il panorama è quindi caratterizzato da un’ulteriore polarizzazione produttiva verso la Cina e da un’accresciuta finanziarizzazione dell’economia americana. L’International Herald Tribune di sabato 25 luglio sottolineava che la forte ripresa degli indici di Wall Street ed anche degli stessi profitti di società come Goldman-Sachs dipendonoo in misura rilevante dall’introduzione di sistemi di computers centralizzati ultra rapidi, difficilmente accessibili ad altri operatori, che permettono di trasmettere milioni di ordini di acquisti/vendite azionari. Secondo l’Herlad Tribune tali sistemi agevolano la manipolazione dei prezzi delle azioni. Pertanto uno dei risultati più tangibili del rilancio di Obama è la concentrazione bancaria e l’accentuazione della rarefazione finanziaria aumentando la subordinazione dell’economia detta reale. La  crisi in corso rafforza il binomio formato dalle società finanziarie e dalle multinazionali dell’energia come assi portanti – integrati col settor militar industriale (quest’ultimo però oggi manca di obiettivi definiti) del capitalismo Usa.
      Consideriamo ora le implicazioni dell’accresciuta polarizzazione tra la Cina e gli Usa prendendo come esempio la vicenda dello Sri-Lanka e dell’Afghanistan. La strategia bismarckiana cinese richiede ampie risorse di materie prime ed un loro diretto controllo. A tal fine Pechino utilizza parte del suo surplus con l’estero per investire in Africa, Australia ed America meridionale. Le rotte con l’Africa e l’Oceano indiano sono diventate molto importanti. L’appoggio militare e logistico dato al governo di Colombo per schiacciare i Tamil Tigers era legato all’apertura di punti di appoggio, di porti e basi controllate da Pechino nella parte meridionale dell’isola. L’obiettivo di stabilire della stazioni lungo la rotta verso l’Africa è in conflitto diretto con la politica Usa di controllare l’Oceano indiano per motivi geopoliticamente costruiti in relazione agli intressi delle multinazionali energetiche. Così è nata la guerra all’Iraq, e così fu anche per l’invasione dell Afghanistan nel 2001 (il manifesto fu il solo giornale italiano a riportare interamente la deposizione al Congresso di John Maresca, vice presidente dell’Unocal, società energetica ove lavorava l’attuale presidente afghano Karzai, perorante la trasformazione dell’Afghanistan in un nodo di gasdotti ed oleodotti per esportare verso la Cina). Obama non ha alcuna alternativa alla difesa degli interessi globali delle multinazionali energetiche Usa in quanto non ha un piano di rilancio qualificato dell’economia nazionale. Per produrlo dovrebbe rispolverare le idee ed i progetti di Robert Reich. Ma questi sono ormai inattuabili  dato che il perno della politica economica di Washington è costituito dal rilancio della finanza attraverso il piano Geithner-Summers.
      Assieme allo scontro di interessi Cina Usa riguardo il controllo delle fonti energetiche – ed è su questa falsa riga che si dovranno interpretare anche le divergenze sulle politiche ambientali – vi è la questione finanziaria. Nell’economia politica Usa circuito del dollaro e controllo economico e politico-militare delle materie prime, del petrolio in particolare, si sono fusi da tempo. Questo fatto facilita il signoraggio internazionale del dollaro. In altri termini gli Usa possono pagare il deficit estero senza dover sacrificare delle risorse nazionali. Il compromesso funziona fintanto che l’economia in deficit tira. Quando essa cessa di tirare i paesi in surplus subiscono sia il calo della domanda di esportazioni che il costo del signoraggio ed aumentano i rischi riguardo il valore futuro del dollaro. Per Washington la soluzione passa per una forte rivalutazione della moneta cinese ma è pura propaganda. Infatti la rivalutazione dello yuan dovrebbe essere talmente elevata da scombussolare ulteriormente l’intera economia Usa., in cui gli elementi di crisi dominerebbero nettamente sulla convenienza di ritornare a produrre negli Stati uniti. Non vi sono soluzioni tecnico-istituzionali a questo problema che va visto come una contraddizione nella sua forma più pura.

Fonte: il Manifesto

27 luglio 2009

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