Nelle guerre odierne è più pericoloso essere donna che soldato


Redattore Sociale


A dieci anni dalla risoluzione Onu su “Donne, pace e sicurezza”, ActionAid e Pangea lanciano un rapporto sull’attuazione del testo e sull’impegno italiano. “Il 90% delle vittime dei conflitti sono civili, per lo più donne e bambini”.


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Nelle guerre odierne è più pericoloso essere donna che soldato

ROMA – I conflitti armati di oggi, più che in passato colpiscono i civili. E tra questi, a soffrirne di più sono le donne, sia nelle fasi che precedono una guerra, sia nelle successive fasi dei negoziati di pace. È quanto affermano ActionAid e Fondazione Pangea, due organizzazioni non governative impegnate da anni nella lotta alla povertà e nell’empowerment delle donne discriminate in un rapporto presentato questo pomeriggio a Roma nella Sala del Mappamondo presso Montecitorio, in occasione dei dieci anni dell’approvazione della risoluzione Onu 132 su “Donne, pace e sicurezza”. Secondo le due organizzazioni, i civili rappresentano oggi il 90% delle vittime di un conflitto armato, e l’80% di questa larga maggioranza di sfollati civili è costituito da donne e bambini. “Al di là delle percentuali – spiegano le due organizzazioni -, appare intuitivo e ampiamente riconosciuto che le guerre abbiano un impatto diverso tra uomini e donne. Ma non sempre da questa consapevolezza è derivata una considerazione puntuale della dimensione di genere nelle diverse fasi di un conflitto”.
 
Nonostante le violenze si acuiscano a conflitto iniziato, ActionAid e Pangea individuano le violazioni dei diritti delle donne in tutte le fasi di un conflitto. “Nella fase che precede la degenerazione del conflitto – spiega il rapporto – si possono rilevare con maggiore tempestività i segni dell’innalzarsi delle tensioni tenendo conto di indicatori sensibili al genere, quali la stereotipizzazione dei ruoli di uomini e donne e l’aumento della violenza sulle donne”. Ed è, infatti, in questo momento che aumentano anche fenomeni quali la prostituzione, legata all’aumento della mobilitazione dei soldati, o la stessa stereotipizzazione dei ruoli di genere causata dalla propaganda che supporta l’azione militare. Nella fase acuta del conflitto, invece, l’aspetto più drammatico riguarda la violenza sessuale, come nel crollo dell’ex Iugoslavia in cui tali violenze hanno colpito almeno 20 mila donne bosniache, ma non è il solo caso. In Ruanda i casi di stupro nel ’94 furono tra i 250 mila e i 500 mila, in Sierra Leone oltre 50 mila e nel Sud Kivu, nella Repubblica democratica del Congo si calcola una media di 40 donne stuprate ogni giorno nel periodo che va dal 2007 e il 2009. Violenze in alcuni casi attribuite agli stessi peacekeeper. Tra il 2007 e il 2009, spiegano le organizzazioni, su 450 casi di abusi sessuali attribuiti a peacekeeper, solo 29 sono stati perseguiti. Mentre nel 2010, su 45 casi attribuiti a personale delle Nazioni unite ne sono stati perseguiti solo 13. “Anche la violenza domestica aumenta in contesti di guerra – si legge nel documento -. Nel Kosovo, ad esempio, del 23% di donne che hanno subito violenza circa la metà ha indicato il periodo di inizio della violenza tra il 1998 e il 1999 (ossia agli inizi del conflitto). Un fenomeno diffuso e trasversale, che talvolta tende addirittura a incrementare nella fase di post-conflitto”.
 
Donne che non trovano spazio neanche nei negoziati che mirano alla fine del conflitto, nonostante questi siano la base degli interventi successivi agli accordi di pace. “La crisi del Kosovo – aggiungono le organizzazioni – rappresenta un caso esemplare: l’assenza della dimensione di genere nei negoziati di Rambouillet e nella Risoluzione 1244 istitutiva della missione delle Nazioni Unite è proseguita con l’esclusione delle donne dal gruppo di consultazione con i rappresentanti locali previsto dall’amministrazione transitoria, viziando complessivamente la missione da una sostanziale inadeguatezza”. La fine di un conflitto, però, non sempre coincide con una maggiore considerazione dei diritti delle donne. Una situazione che mina i percorsi di pace. “L’esperienza – si legge nel rapporto – dimostra che escludere la metà della popolazione dalla rappresentazione nelle sedi decisionali degli accordi di pace può comportare oblio verso questioni essenziali per il consolidamento della pace e contribuire di fatto al ritorno delle violenze. È avvenuto in Angola dove nella commissione incaricata dell’implementazione degli accordi di Lusaka sedevano 40 persone, tutti uomini”.
 
Per tali ragioni, spiegano le due organizzazioni, nelle missioni internazionali la sensibilizzazione alle tematiche di genere rappresenta “un elemento indispensabile sia per motivi di sicurezza, quali il contrasto alle violenze di cui si sono macchiati in passato anche gli stessi peacekeepers, sia per sostenere la ricostituzione delle forze armate e di polizia locali, misure sempre più tipiche nelle attuali missioni”.
Analisi di genere fondamentale nei vari interventi sui territori martoriati da conflitti. “Non tener conto della difficoltà per le donne a partecipare ad attività di informazione sulla presenza di mine in un territorio può aumentare la loro esposizione al rischio, nell’organizzazione dei campi per rifugiati è indispensabile tenere conto delle esigenze specifiche delle donne, così come nell’assistenza umanitaria, e nei programmi di ricostruzione dei quali le donne potrebbero non beneficiare perché già escluse dal godimento di alcuni diritti, come le vedove ugandesi costrette all’esilio perché escluse dalla successione dei beni già appartenenti ai loro mariti”.

Fonte: www.redattoresociale.it
30 Novembre 2010

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