Nel Maryland si gioca il destino di quattro leader


Umberto De Giovannangeli - L'Unità


Al tavolo del summit il convitato di pietra Ahmadinejad. Il loro futuro passa per Annapolis. Quattro personaggi in cerca di rilancio. Quattro destini personali che incrociano quelli dei popoli della più tormentata e nevralgica area del mondo: il Medio Oriente.


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Nel Maryland si gioca il destino di quattro leader

Il loro futuro passa per Annapolis. Quattro personaggi in cerca di rilancio. Quattro destini personali che incrociano quelli dei popoli della più tormentata e nevralgica area del mondo: il Medio Oriente. Condoleezza Rice, segretaria di Stato Usa. Ehud Olmert, primo ministro d’Israele. Mahmud Abbas (Abu Mazen) presidente dell’Autorità nazionale Palestinese. Saud al Faysal, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita. Sono loro, più di ogni altro partecipante, ad aver puntato tutto sulla riuscita di Annapolis. Il fallimento della conferenza segnerebbe per ciascuno di loro una sconfitta probabilmente irrimediabile. Un successo ne rilancerebbe prepotentemente le azioni. Ma ad Annapolis guarda un quinto personaggio. Il “convitato di pietra”: Mahmud Ahmadinejad, presidente della Repubblica Islamica dell’Iran.
Condolezza Rice. Più di qualsiasi altro esponente dell’amministrazione Bush, Condy ha sempre ritenuto che la “mission” diplomatica degli Usa fosse quella di lavorare per la realizzazione di un accordo di pace fra israeliani e palestinesi. Scrive il bene informato Washington Post che quando Bush le propose l’incarico di segretario di Stato, lei gli chiese solo se era pronto a sostenere la creazione di uno Stato palestinese, ottenendo una risposta affermativa. Già quando era consigliera per la sicurezza nazionale Rice svolse un ruolo importante in Medio Oriente, aprendo un canale con l’allora primo ministro israeliano, Ariel Sharon, e intervenendo nella stesura del piano per lo smantellamento degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza. Per riuscire a realizzare l’incontro di Annapolis, “Condy l’instancabile”, ha effettuato otto missioni in Medio Oriente, animata dalla convinzione che se Yasser Arafat nel 2000 a Camp David rifiutò le concessioni dell’allora premier israeliano Ehud Barak offerte da Bill Clinton fu anche per la mancanza di “sostegno regionale alla pace”, ovvero di Egitto e Arabia Saudita. In questa chiave la partecipazione di Riad e di Damasco alla Conferenza di Annapolis rappresenta un suo indubbio successo: per la prima volta in 69 anni Riad si siede allo stesso tavolo con lo Stato di Israele. Ma la Rice sa bene che la sua resta una missione al limite dell’impossibile. E la prima ragione è forse da ricercare nel suo capo: George W. Bush. Il perché lo spiega molto chiaramente il più diffuso giornale israeliano, lo Yediot Ahronot: “Nei sette anni in cui è stato alla Casa Bianca (Bush) si è astenuto dal lasciarsi coinvolgere in alcun tentativo di soluzione del conflitto israelo-palestinese. Non è mai giunto in visita in Israele, non ha voluto incontrare il presidente palestinese Yasser Arafat…il suo atteggiamento è stato un misto di ignoranza e incuranza”. Se adesso è entrato in azione, secondo il giornale, lo si deve a due motivi: il tentativo di lasciare di sè un’immagine migliore, dopo l’insuccesso in Iraq; e la speranza di organizzare una coalizione di Paesi arabi moderati per contenere la minaccia iraniana. Di ciò, Condy è consapevole. Ma ci ha comunque provato. E non è poco.
Ehud Olmert. Il primo ministro meno amato dagli israeliani sa di giocarsi molto, forse tutto, lì nel Maryland. Credibilità interna, prestigio internazionale. Rilanciare il negoziato con i palestinesi, aprirlo al mondo arabo: è la doppia sfida del premier che deve ancora fare i conti con le responsabilità personali a cui è stato inchiodato dalla Commissione d’inchiesta sulla guerra in Libano dell’estate 2006. Passare dalla cronaca alla storia non sarà facile per l’ex sindaco di Gerusalemme. Nel suo viaggio verso Annapolis è accompagnato da un diffuso scetticismo. Lo stesso che circonda il suo “compagno” di avventura: Abu Mazen. Sia il premier israeliano che il presidente palestinese appaiono infatti politicamente troppo deboli e privi della necessaria autorità per imporre i necessari “sacrifici dolorosi” a cui di recente Condoleezza Rice ha accennato.
Un assenso di Olmert a concessioni che vadano oltre al massimo che la maggioranza degli israeliani è disposta a fare provocherebbe infatti l’uscita di due partiti della coalizione, Shas e Israel Beitenu, e la caduta del governo. L’opinione pubblica israeliana è disposta a un ritiro dalla pressoché totalità dei territori occupati nel 1967 ma, dopo gli amari risultati del ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza, dubita fortemente che i tempi siano maturi per una vera pace in una regione dove il fondamentalismo islamico, con sostegno iraniano, è visto in continua minaccia di crescita. “Siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità”, ha affermato a più riprese Olmert. Ad Annapolis dovrà convincere il mondo, quello arabo in particolare, che le sue non sono solo parole.
Abu Mazen. Non può permettersi un passo falso. Perché vorrebbe dire lasciare campo libero al nemico interno: Hamas. Tra i “quattro di Annapolis”, Mahmud Abbas ( Abu Mazen) è quello che rischia di più. Perché è il più debole. Non è solo Hamas ad attenderlo al varco. Il rais che non infiamma le folle, ha bisogno, un bisogno vitale, di risultati concreti che rafforzino la sua traballante leadership. Le premesse non sono delle migliori: con il sostegno americano, Abu Mazen voleva presentarsi alla “conferenza della svolta” con un impegnativo Documento congiunto israelo-palestinese, che entrasse nel merito delle questioni dirimenti il conflitto israelo–palestinese ( i confini, lo status di Gerusalemme, i rifugiati palestinesi, le risorse idriche) definendo al tempo stesso i meccanismi di monitoraggio dell’attuazione delle intese e, soprattutto, l’arco temporale entro il quale concludere il negoziato: otto mesi, comunque entro la fine del mandato presidenziale di George W. Bush, vale a dire gennaio 2009. Non c’è riuscito. Abu Mazen giunge ad Annapolis in condizioni di estrema debolezza, in un momento in cui la sua autorità arriva a malapena alle città cisgiordane ma non alla Striscia di Gaza, saldamente nelle mani del “golpista”. Hamas che considera un anatema ogni ipotesi di pace con Israele. In queste condizioni non si vede come il rais possa scendere a compromessi sulla spinosa questione del diritto al ritorno in Israele di milioni di profughi palestinesi, tema che ha sempre costituito il motivo dominante della lotta palestinese. Gli israeliani, d’altra parte, non sono disposti ad accogliere questa richiesta palestinese perché, nella convinzione della quasi totalità della popolazione ebraica, porterebbe alla inevitabile dissoluzione, traumatica e molto probabilmente sanguinosa, di Israele come Stato ebraico. “Voglio concludere il cammino avviato da Yasser Arafat”, ha proclamato Abu Mazen in occasione del terzo anniversario della morte del padre della patria palestinese. In molti ci sperano, in pochi lo credono possibile.
Saud al Faysal. Il “principe pragmatico” ha vinto le resistenze della dinastia saudita e staccato il biglietto per Annapolis. Nel Maryland per cementare il fronte “anti-iraniano”. E’ questo l’obiettivo strategico del capo della diplomazia saudita – per vent’anni ambasciatore negli Usa – molto più che dare corpo alla (sbiadita) speranza palestinese di uno Stato indipendente. Faysal contro Ahmadinejad. Riad contro Teheran. In ballo c’è la leadership del mondo arabo, alla quale l’Arabia Saudita si candida. Ed è proprio perché è questa la posta in gioco, Saud al Faysal non può permettersi che Annapolis si riduca ad una photo opportunity. Quel che si chiede ora una contropartita da parte americana. E questa contropartita è un esplicito sostegno al piano di pace saudita, del 2002 e confermato quest’anno nel vertice della Lega Araba di Riad, che prevede un riconoscimento di Israele in cambio del ritorno ai confini antecedenti alla guerra del 1967, la creazione di uno Stato palestinese, con Gerusalemme est capitale, e una soluzione “equa e concordata” per la questione dei profughi palestinesi. “Se Israele rifiuta l’iniziativa – ha ammonito Faysal – vuol dire che non vuole la pace. Il conflitto, allora, tornerà nelle mani dei signori della guerra”. “Signori” come il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, il convitato di pietra della Conferenza di Annapolis. La sua sentenza è già stata scritta. Ed è una condanna senza appello: “La cosiddetta conferenza di pace – ha tuonato il presidente iraniano – non offre alcun beneficio al popolo oppresso palestinese ma serve solo per sostenere gli occupanti sionisti”. E poi la minaccia rivolta ai Paesi arabi “collaborazionisti”, in primis l’Arabia saudita: “La Storia non ricorderà favorevolmente i nomi di coloro che parteciperanno a questa conferenza fornendo così un sostegno al regime sionista”.

Fonte: "L'Unita"

26/11/2007

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