Myanmar: "La gente scenderà nuovamente in piazza"


La redazione


Bruna Iacopino su "Articolo21" riporta il racconto di Oliviero Bergamini e dell’operatore Claudio Rubino (inviati del Tg3) al ritorno dalla ex Birmania.


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Myanmar: "La gente scenderà nuovamente in piazza"

“La repressione di questi ultimi giorni ha funzionato, almeno per il momento, gli arresti notturni dei leader dell’opposizione sono proseguiti senza sosta” così Oliviero Bergamini esordisce al ritorno dalla Birmania, dove, in compagnia dell’operatore Claudio Rubino, ha seguito per il Tg3 le proteste di piazza che hanno infiammato le strade di Rangoon. Per capire cosa ha condotto migliaia di persone a scendere in piazza nonostante il pericolo della repressione militare è necessario tener conto delle condizioni in cui versa il paese: “La gestione corrotta dell’economia, spiega Bergamini, ha portato ad una situazione di crisi inimmaginabile: la gente è esasperata, il costo della vita è altissimo di contro ad una situazione di povertà tra le peggiori al mondo…

La giunta militare non ha fatto altro che depredare le ricchezze nazionali del paese affidandole a compagnie straniere senza redistribuire i proventi ai cittadini. In questo quadro si colloca anche l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, dalla benzina ai beni di consumo quotidiani. Inoltre il sistema sanitario e quello scolastico versano in condizioni disastrose”.
Le proteste di Rangoon hanno monopolizzato l’attenzione pubblica mondiale per diversi giorni, era dal 1988, anno dell’altra grande protesta repressa nel sangue, che il Myanmar non stava sotto i riflettori: “Nel 1988 – continua Bergamini- la repressione fu durissima, ma ad essa seguì una pseudoapertura da parte dei militari che concessero elezioni libere (non seguite da effettivo insediamento da parte della fazione vincitrice…), nel frattempo la rete di oppositori al regime si è consolidata sia all’interno che all’estero, e in questi anni si è anche fatta sentire, ma non in maniera eclatante”.
“Probabilmente, se i monaci non fossero scesi in piazza i media non se ne sarebbero occupati tanto..”.
I monaci sono stati, difatti, l’enorme cassa di risonanza mediatica per la Birmania in rivolta ma, stando alle dichiarazioni raccolte da Bergamini sul posto, l’intento di molti di loro non aveva alcuna matrice politica: “ Alcuni di loro sostengono di essere scesi in piazza per proteggere la gente dai militari in seguito alle prime proteste scoppiate ad agosto, non è nelle loro intenzioni rovesciare il regime, come hanno sostenuto molti media, sono piuttosto favorevoli ad una sorta di riconciliazione nazionale, quindi dialogo fra le parti, però è vero anche che, scendendo in piazza sono automaticamente passati dalla parte degli oppositori e perseguitati come tali. Nei fatti, le alleanze fra le due parti, monaci e civili, sembrano essere molto strette”.
I birmani hanno fiducia nell’intervento della comunità internazionale, per  quanto siano rimasti delusi dall’inviato Onu Gambari. “Per quanto riguarda le sanzioni- continua Bergamini- una parte dell’opposizione giudica utile il blocco del turismo, per esempio, mentre altri ritengono che questo sarebbe rovinoso anche per i civili… in rapporto alle sanzioni internazionali, verrebbero accettate solo se ferme e dirette a colpire il regime.”
Arriviamo quindi ad un punto cruciale, il ruolo dei media nel mondo: “ Quello che i media possono fare- conclude l’inviato- è tenere alta l’attenzione sulla Birmania, continuare a parlarne ricordando che si tratta di uno dei regimi dittatoriali tra i peggiori al mondo, magari raccontando storie particolari, vicende pittoresche che attraggano l’attenzione della gente…”

Claudio Rubino da un quadro diverso, relativo al lavoro svolto e alle difficoltà incontrate nel raccontare la rivolta birmana di fronte alla pesante censura esercitata dal regime: “L’aspetto singolare del lavoro svolto consisteva nel fatto che dovevamo occuparcene ‘a distanza’…: noi stavamo al confine tra Birmania e Thailandia, e da lì abbiamo avuto modo di constatare quelle che sono le condizioni della gente che vive letteralmente ai margini. Abbiamo visitato due campi profughi, uno in Thailandia e l’altro in Birmania dove stanno i Karen, l’opposizione militare. Pur controllando militarmente interi territori, i Karen, da quello che abbiamo potuto appurare incontrando uno dei capi militari, non hanno la forza per abbattere il regime. Dagli incontri che abbiamo fatto con i profughi è emersa invece la volontà di continuare a lottare…”.

Nonostante i pericoli rappresentati dalla censura militare, i due inviati hanno comunque oltrepassato la frontiera: “Siamo entrati in Birmania spacciandoci per turisti, dentro abbiamo cominciato a parlare con la gente, con i monaci, ci hanno fermati di nuovo all’uscita, ma fortunatamente non è successo nulla. Solo dal confine potevamo inviare servizi e informazioni ricevute. C’erano davvero pochi giornalisti nella zona…” conclude Rubino.

Il dato forte che emerge da entrambi è che la gente non si fermerà, neppure di fronte alle armi, nuove mobilitazioni sono pronte. Nessuna delle persone sentite sul posto dai due inviati ha fatto accenno a una data o una modalità particolare, ma l'appoggio da parte della comunità internazionale sembra essere una spinta in più per continuare a lottare.

Fonte: Articolo21 

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