Libano, voto per evitare la deriva siriana


Il Sole 24 Ore


Il 6 maggio in Libano si torna a votare per le legislative dopo nove anni di pausa. Salvare il paese dal precipizio siriano è la priorità: dopo la Tunisia, è l’unico della regione che con qualche concessione possa essere chiamato democratico.


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Libano-ele

«Otto sunniti, un alawita, un cristiano maronita, un cristiano ortodosso». Saranno i deputati del distretto elettorale Nord II, Tripoli-Minyeh-Dinnieh, nell’estremo occidente libanese. Così è sempre stato nella democrazia settaria e familistica di questo piccolo Paese abitato da una comunità divisa in 17 fedi religiose e molte rivalità politiche ma coriaceo in pace come in guerra; vittima d’ingombranti vicini come possono essere Siria e Israele, ma capace di fare anche da solo, come accadde nella guerra civile scoppiata nel 1975 e finita quindici anni più tardi.

Voto dopo nove anni «di pausa»
Settantasette liste e 15 distretti, 583 candidati per 128 scranni parlamentari per la metà dei quali si potrebbe già fare i nomi degli eletti. Il 6 maggio in Libano si torna a votare per le legislative dopo nove anni di pausa: per due volte il Parlamento si era prolungato il mandato. Il ritardo ha due cause: l’ufficiale era la necessità di riformare il sistema elettorale; l’implicita è la guerra in Siria, il timore di aumentare la tensione con una campagna elettorale ed essere risucchiati dal caos oltre la frontiera. Il Paese ne aveva visto l’abisso quando tre anni fa Hezbollah, il movimento sciita filo-iraniano, aveva mandato i suoi miliziani a combattere accanto a Bashar Assad. Come reazione l’Isis era penetrato nel Nord del Libano e milizie sunnite avevano compiuto attentati in tutto il Paese.

Il campo di battaglia di Tripoli, a una trentina di chilometri dalla Siria, sono state le moschee della città, le auto-bombe nelle strade del centro, gli scontri nei campi palestinesi. La città è storicamente sunnita con una importante maggioranza alawita (sciita), ma ci sono sunniti filo-sauditi e sunniti filo-siriani. Entrambe le fazioni hanno dato al Paese molti premier e un gran numero di ministri, tuttavia Tripoli ha le statistiche peggiori del Paese: la più alta percentuale di disoccupati, la più bassa in investimenti, scolarizzazione e iniziative sociali.

Una buona parte degli eletti sono sempre stati gli stessi: delle solite correnti, delle medesime famiglie. È così in tutto il Libano. Nel Parlamento e spesso al governo, c’è sempre un Gemayel, un Franjie e uno Chamoun maroniti; un Berri sciita e un Jumblatt druso: quest’anno esordisce il giovane Taymour, figlio di Walid e nipote di Kamal Jumblatt. Il ministro degli Esteri è genero del presidente della Repubblica e il premier Sa’ad Hariri è figlio di Rafik, il primo ministro fatto uccidere dai siriani nel 2005. Sa’ad vorrebbe guidare anche il prossimo esecutivo: qualche mese fa i sauditi gli avevano ordinato di dimettersi, prima di ripensarci e di rilasciarlo da uno stato di semi-prigionia a Riyadh.

Anche questa è una caratteristica libanese: ogni partito-comunità religiosa-famiglia ha un padrino internazionale. Quello degli Hariri è l’Arabia Saudita, Hezbollah ha Teheran e i cristiani l’Europa che tuttavia è riluttante a esporsi con la stessa determinazione di Iran e sauditi.
Debutta il proporzionale
Le elezioni di domani, tuttavia, potrebbero portare qualche novità. Il nuovo sistema elettorale mantiene le quote settarie in Parlamento, ha leggermente modificato i confini delle Regioni elettorali. Ma soprattutto impone un sistema proporzionale: anche le liste più piccole ora possono sperare di arrivare in Parlamento.

Il nome della lista di Misbah al-Ahdab, candidato sunnita di Tripoli che ha sempre corso da solo, vale un programma: “Decisione indipendente”. Non ci sono parenti né padrini all’estero che lo proteggono. Nel 1996 al-Ahdab era stato eletto nelle liste di Hariri. Si era allontanato da lui e dai sauditi, e da indipendente aveva vinto altre due volte ma nel 2009 il sistema si era vendicato. Era anche finito nelle liste di proscrizione siriane ma la situazione politica era mutata prima che i sicari arrivassero sotto casa sua. Ora la riforma elettorale, un “proporzionale ibrido”, potrebbe dargli nuove possibilità in un Parlamento che sarà molto frazionato. Ne sarà felice Hezbollah: non per al-Ahdab che è un laico convinto, ma perché una camera e un governo così pletorici permetteranno al movimento islamico sciita di continuare a essere uno Stato nello Stato, forza militare compresa.

Per la prima volta ci saranno anche liste della società civile. Quei gruppi che dal 2011 avevano protestato contro l’immondizia nelle strade, la mancanza di acqua, la corruzione del sistema. La lista “Tahaluf Watani”, confederazione patriottica, riunisce 11 movimenti “non settari né di parte per offrire soluzioni”. Ma c’è molto scetticismo sulla possibilità di successo. «Sono come quelli che orinano nel mare credendo di farne crescere il livello», dice Bassem Shabb del movimento di Hariri.
La situazione economica
Il debito libanese è da 79 miliardi di dollari, il 150% del Pil e nel 2023 arriverà al 180. Con i soldi del Golfo e degli emigranti (i libanesi sono 6 milioni ma altri 12 sono espatriati) crescono grattacieli ovunque. Ma le infrastrutture sono drammaticamente insufficienti e la povertà aumenta. Come la corruzione. Tuttavia in queste elezioni non si parla di economia, a parte le ovvie promesse di un benessere dietro l’angolo. È la guerra in Siria il tema principale. Ma parlando di questa, implicitamente si parla di economia. Nel 2010, l’anno prima del conflitto, il Libano cresceva dell’8%. Ora dell’1. Con l’ondata di profughi fuggiti dalla Siria la popolazione è improvvisamente cresciuta quasi del 30% mettendo in crisi quel poco che funzionava del Paese. Durante la campagna elettorale diverse municipalità hanno rimandato con la forza centinaia d’immigrati oltre il confine siriano, scegliendoli in base alla fede: i villaggi musulmani sceglievano i cristiani e viceversa. In quelli con le comunità delle due religioni ne hanno cacciati un po’ degli uni e un po’ degli altri perché anche qui l’accoglienza non porta voti.

All’inizio di aprile il premier Sa’ad Hariri era tornato dalla Conferenza di Parigi (la quarta dedicata al Libano dal 2006) con le tasche piene di promesse: 50 Paesi si sono impegnati a fornire 11 miliardi in crediti e finanziamenti per «una crescita inclusiva e la creazione di posti di lavoro». Il Libano non ha ancora fatto le riforme né combattuto la corruzione come richiesto dalle precedenti conferenze. Ma la comunità internazionale ha riconosciuto che in queste condizioni geopolitiche è difficile riformare. Salvare il Libano dal precipizio siriano è la priorità: dopo la Tunisia, è l’unico Paese della regione che con qualche concessione possa essere chiamato democratico.

Ugo Tramballi

Il Sole24Ore

5 maggio 2018

 

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