Le violenze sulle donne al campo di Moria


Avvenire


Nella tendopoli per 20mila migranti nell’isola di Lesbo, le operatrici della ong spagnola Rowing Together curano donne provate dalla fuga e dalle dure condizioni di vita.


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Women stand in a camp outside the refugee camp of Moria, in the northern Greek island of Lesbos on September 25, 2018. - But despite a 2016 agreement between Turkey and the European Union designed at shutting down this particular route into Europe, the migrants are continuing to arrive. About 20,000 refugees and migrants - more than 8,000 of them for the only camp of Moria, with a capacity of 3,000 places - have been confined in Lesbos for months. Most fo them are qualified for passage to Greece. (Photo by Aris MESSINIS / AFP)        (Photo credit should read ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

Resistenti e con una pazienza infinita: non hanno altra scelta che essere così le donne del campo di Moria, la tendopoli da 20mila persone che sorge ormai da anni tra gli ulivi dell’isola greca di Lesbo.
Fuori da uno dei due ingressi di questo centro di identificazione UE, conosciuto per le estreme condizioni di vita, si trova una clinica riservata a loro. “Queste donne hanno perduto la propria casa, la sicurezza, il proprio paese e spesso anche la famiglia: tutto ciò che hanno è il loro corpo, l’unica forma di identità che resta” spiega Isabel Rueda, giovane coordinatrice di Rowing Together (cioè “remare insieme”), una Ong spagnola che gestisce il centro di assistenza ginecologica e di ostetricia. “Diversi problemi medici che vediamo qui, dolori cronici, un ciclo fermo da 7-8 mesi, hanno origine psicologica. A volte non possiamo fare altro che ascoltare quello che hanno da dire. E spiegare alle pazienti che è normale che i problemi dell’anima si ripercuotano sul loro corpo”.

Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, uno staff di cinque operatori sanitari fornisce cure ginecologiche a una quarantina di donne soprattutto afghane, ma anche siriane e di diversi paesi africani.

L’hot spot di Moria è un posto già abbastanza duro per gli uomini. Per le donne rappresenta un rischio costante, sanitario e di incolumità psico-fisica. “Quando c’è una gravidanza o quando riscontriamo un problema di salute, le prime misure da adottare sono igiene, cibo e sonno adeguati. Qui nessuna delle tre cose è possibile” spiega Isabel Rueda. C’è chi perde il proprio bambino per motivi legati alle condizioni di vita del campo, “almeno un caso di aborto spontaneo alla settimana, perché si dorme in tenda, al freddo e non si mangia come sarebbe necessario. Nel primo trimestre di una gravidanza capita anche in condizioni normali, ma qui accade più di frequente”.

Di norma i parti avvengono nell’ospedale di Mitilene, il capoluogo dell’isola. Già il giorno successivo la neo-mamma è costretta a tornare al campo “anche nei casi di parto cesareo. A volte vediamo infezioni per ferite non cicatrizzate e perché a Moria non è possibile mantenere l’igiene”.

Il sistema ospedaliero sull’isola è in affanno, inadeguato anche per gli stessi abitanti. Rowing Together ha un canale di comunicazione e collaborazione che, però, presenta gravi lacune. “Di solito non viene trascritto nei verbali a quali cure sono state sottoposte le donne, e per noi diventa difficile capirlo”, prosegue la coordinatrice. “Spesso alle pazienti non viene spiegato nulla di quello che succede loro: una donna è tornata qui dopo un aborto spontaneo dicendoci che in ospedale era stata addormentata e al risveglio non le era stato spiegato nulla. Ci ha chiesto se suo figlio stesse bene. Ma il bambino non c’era già più”.

Alle ginecologhe e alle ostetriche della clinica, tutte volontarie, capita anche di vedere i segni della violenza, spesso domestica: “Queste donne vengono qui anche solo per parlare, perché comunque preferiscono rimanere accanto a un marito violento piuttosto che restare da sole e rischiare ancora di più”. Sui corpi delle donne di Moria si rintracciano anche vecchie cicatrici di soprusi avvenuti nei paesi d’origine o durante il viaggio verso l’Europa.

Delle aggressioni consumate in Grecia, invece, si occupa un’altra organizzazione che dispone anche di assistenza legale. La sicurezza che manca è, infatti, uno dei drammi più grandi del campo: di notte nessuna donna si azzarda ad andare ai bagni, “camminare tra le tende anche solo per cinque minuti è un rischio”.

Ai pericoli interni alla tendopoli si aggiungono, da un paio di settimane, quelli di veri e propri raid di gruppi di estrema destra greci che scaldano gli animi di una popolazione locale già esasperata, convinta di essere stata abbandonata da Governo e Unione Europea.

Scontri e sassaiole, manifestazioni represse in maniera violenta dalla polizia greca, incendi sospetti (l’ultimo, la notte scorsa, ha distrutto la Scuola della Pace della ONG One Happy Family, ma ancora prima era toccato a un campo Acnur nel nord, a un magazzino di stoccaggio a Chios e a diverse auto di volontari di ONG). “Abbiamo chiuso per alcuni giorni la nostra clinica per quello che è accaduto, non ci sentiamo più sicure come prima. Da tre giorni però abbiamo riaperto” prosegue. “Naturalmente anche le abitanti del campo sono a rischio. Venerdì una donna incinta ai primi mesi di gravidanza è arrivata da noi preoccupata: voleva sapere se il suo bambino stesse bene, perché la polizia l’aveva colpita durante un tafferuglio al porto. Aveva segni sul corpo”.

Dolori nuovi si sovrappongono a quelli passati, ma Isabel Rueda garantisce che nelle giornate alla clinica c’è anche posto per sorrisi e qualche risata: “È evidente che c’è un dramma in corso, ma qui vediamo quanto queste donne si danno una mano l’un l’altra. Ciascuna fa del proprio meglio. Sto imparando molto, è difficile da dire, ma in questo campo prendo più di quello che sono venuta a dare”.

Avvenire

8 marzo 2020

 

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