Lampedusa, i pescatori: “Grazie a Dio sono arrivati i tunisini”


Redattore Sociale


In sciopero da due settimane, protestano contro il gasolio che costa 30 mila euro in più l’anno rispetto al resto d’Italia. Gli sbarchi accendono i riflettori sulla vita difficile nell’isola: “Da 40 anni non ci sente nessuno”.


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Lampedusa, i pescatori: "Grazie a Dio sono arrivati i tunisini"

Lampedusa – “Grazie a Dio che sono arrivati i tunisini sennò da 40 anni non ci sente nessuno”. A parlare sono i pescatori del comitato spontaneo di protesta che dal 5 febbraio sono in sciopero e cercano di comunicare all’opinione pubblica che Lampedusa sta morendo. Un’isola che vive di due sole risorse: la pesca per dieci mesi all’anno e il turismo per i restanti due mesi. Entrambi i settori rischiano di essere messi in ginocchio. I lampedusani temono fortemente che le prenotazioni per la stagione estiva possano subire un calo drastico a causa delle notizie allarmistiche apparse sui media nei confronti dell’eccezionale ondata migratoria. Molto più grave è la condizione in cui versa la pesca. Nonostante a febbraio ci siano stati 17 giorni di bonaccia di seguito, “una cosa mai vista d’inverno” dicono i pescatori, non sono usciti in mare con le barche. Sono fermi per una lunga serrata di protesta, anche se questo vuol dire fare la fame. Sono gli stessi pescatori che in passato hanno salvato tanti naufraghi e profughi nel canale di Sicilia, rischiando in prima persona di essere incriminati e di vedersi sequestrare le barche.

“Berlusconi e Maroni dovevano venire a Lampedusa, non andare solo a Catania, la tragedia è qui, siamo molto arrabbiati” dice l’assessore all’Ambiente e alla Pesca Antonio Pappalardo che è palermitano, ex generale dei carabinieri e presidente del comitato. Il problema è che Lampedusa, pur essendo una zona di confine, non ha agevolazioni fiscali per il carburante. Tutto arriva per nave con le cisterne. Il rifornimento di gasolio, come i generi alimentari e l’acqua, sia quella potabile sia l’acqua corrente delle case. Il monopolio del carburante è in mano a una ditta siciliana “Silvia e figli” e costa ai lampedusani 25 centesimi in più al litro rispetto alla terra ferma. Questo vuol dire che per una battuta di pesca che consuma 800 litri di gasolio si spendono 200 euro in più. Moltiplicati per i 150 giorni lavorativi di un anno sono 30mila euro di costi aggiuntivi rispetto ai pescherecci concorrenti di Mazzara Del Vallo. Le difficoltà sono enormi anche per la commercializzazione del pescato. Non c’è un aereo merci per trasportare il pesce fresco nei mercati italiani. Esisteva trent’anni fa un volo Alitalia. Ma poi è stato soppresso e ora d’inverno c’è una sola compagnia aerea passeggeri, la Meridiana.

L’unico trasporto merci è la nave, ma spesso d’inverno con il maltempo non parte da Porto Empedocle. “Buttiamo a mare il pescato in questi casi e succede spesso” racconta Salvatore Lombardo, uno dei pescatori più agguerriti. “I grossisti sono siciliani – continua – e sono loro a imporre il prezzo. Le triglie ce le pagano 6 euro e 50 centesimi al chilo e poi le rivendono al consumatore a 30 euro al chilo”. I 70 pescherecci di Lampedusa sono piccoli, non possono competere con le grandi barche di Mazzara e in una situazione di mercato così viziata dai monopoli, sono inevitabilmente schiacciati dalla concorrenza. Un assurdità, visto che l’isola ha il mare più pescoso. Lo chiamano il ‘mammellone’ perché c’è un plancton speciale di cui i  pesci sono ghiotti. Anche i tunisni pescano a quattro miglia da Lampedusa.

“Noi andiamo in Tunisia per fare i lavori di riparazione dei pescherecci – dice ancora Lombardo – per il carenaggio e per tirare a secco le barche, perché qui non c’è un cantiere per poterlo fare, a meno di voler usare delle basi di legno vecchie di 150 anni”. I pescatori hanno attuato diverse proteste. Hanno consegnato le licenze di pesca alla capitaneria di porto. Hanno restituito anche i certificati elettorali e hanno deciso di non pescare fino a quando saranno accolte le loro richieste. Vogliono abbassare il prezzo del gasolio, creare uno scalo merci aereoportuale e formare una cooperativa di pescatori per allargare il mercato del pesce, per ora limitato alla sola Sicilia a causa dei problemi di trasporto. Ma chiedono anche “un piano di difesa e di sicurezza per l’isola per fronteggiare gli sbarchi”. Pappalardo spiega il motivo. “I pescatori vanno fuori per giorni e settimane a pescare seguendo i giorni di bonaccia – dice l’assessore – Lasciano le famiglie da sole, poi tornano e magari trovano migliaia di tunisini con appena 7 carabinieri com’ è successo nei giorni scorsi”.

di Raffaella Cosentino

Fonte: Redattore Sociale

18 febbraio 2011

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