L’«amico» Gheddafi riapre la caccia all’eritreo


Umberto De Giovannangeli - L'Unità


Ventuno giovani migranti rinchiusi nei lager libici. Due sono invalidi. Dimenticati i 205 arrestati a luglio. Qualcuno ha ritentato la fuga in Italia.


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L’«amico» Gheddafi riapre la caccia all’eritreo

I riflettori si sono spenti. Gli indignati dell’ultima ora sono tornati in letargo. Ma in Libia le retate sono riprese. I lager a riempirsi. Ai «dimenticati di Brak» si aggiungono i deportati di Kuifia. Storie agghiaccianti. Che chiamano in causa, ancora una volta, le responsabilità di un Governo, quello italiano, che dopo aver celebrato gli show romani del Colonnello, continua a ignorare gli appelli disperati che giungono dalla Libia. Dell’odissea degli oltre 200 eritrei segregati per giorni e giorni nel lager di Brak, nel deserto libico, l’Unità ne ha dato conto a più riprese, grazie, soprattutto, al contributo di un sacerdote indomito: don Mussie Zerai, eritreo, responsabile dell’ong Habesha, un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani. Don Zerai ci aggiorna sulla vicenda dei 205 «liberati» da Brak: «Alcuni di loro – rivela a l’Unità – hanno cercato di raggiungere l’Italia. Ma non ce l’hanno fatta». Altri continuano a chiedere di avere un incontro con qualche funzionario dell’Ambasciata italiana a Tripoli, in modo da poter illustrare la loro storia e veder riconosciuto il diritto all’asilo. Ma anche questa richiesta è caduta nel vuoto. Per il Governo italiano la «pratica è chiusa», Definitivamente. Con affari miliardari in fase di definizione, guai a innervosire l’«amico Muammar» tirando fuori il dossier sui diritti umani. Meglio chiudere gli occhi. E occuparsi d’altro. E poco importa che le retate sono riprese. Che è ripresa la caccia all’eritreo. A Tripoli, a Bengasi…Quella raccontata da Mussie Zerai, sulla base di contatti diretti con alcune delle vittime, è la storia di sedici ragazzi e cinque ragazze di nazionalità eritrea, tutti profughi, prelevati dalle autorità libiche dalle loro abitazioni nella città di Bengasi: «Li sono andati a cercare – sottolinea Zerai – andavano a colpo sicuro…». È la sera del 3 settembre. L’incubo ha inizio. E nelle testimonianze raccolte dal fondatore di Habesha, si «arricchisce» di particolari agghiaccianti. «I ragazzi – racconta don Zerai – mi hanno detto di essere stati messi assieme a persone che hanno commesso reati quali omicidi, stupri, spaccio di droga…Trattati alla stregua di criminali comuni». Questo avviene nel centro di detenzione di Algedya, mentre le cinque ragazze sono state condotte nel carcere di Kuifia, nei pressi di Bengasi. «La situazione più grave – prosegue il suo racconto Mussie Zerai – riguarda due ragazzi: uno che ha una gamba amputata e ha bisogno di cure continue. Invoca assistenza, che gli viene negata». L’altra emergenza riguarda un ragazzo con problemi mentali. «Da quanto mi hanno riferito – dice il sacerdote eritreo – questo ragazzo continua a sbattere la testa contro il muro. È in una condizione di totale confusione. Avrebbe bisogno di cure specifiche, andrebbe tolto da quella cella…». Così non è. Quel ragazzo con disturbi mentali e l’altro con una gamba amputata, e gli altri quattordici loro compagni di sventura, per le autorità libiche sono «migranti illegali» e dunque da trattare alla stregua di criminali. Non basta. Ad allarmarli ulteriormente è stata una visita indesiderata: quella di un rappresentante dell’Ambasciata eritrea a Tripoli, il quale ha comunicato loro che presto, molto presto, a causa della mancanza di un passaporto valido saranno deportati nel Paese d’origine. Quel Paese da dove erano fuggiti. «Al che i ragazzi hanno chiamato per chiedere aiuto», spiega Mussie Zerai. «Ho parlato con gli esponenti di diverse organizzazioni umanitarie e con Laura Boldrini (portavoce in Italia dell’Unhcr, ndr)- afferma il sacerdote -. A tutti loro ho chiesto di attivarsi non solo per impedire la ventilata deportazione di queste persone, ma anche perché si arrivi a una soluzione globale». Una speranza che si scontra con la colpevole inerzia della diplomazia italiana. E del suo responsabile: Franco Frattini. «Tutto questo accade in conseguenza dell’Accordo Italia-Libia, secondo il quale il leader Gheddafi si impegna a fermare nel suo Paese i profughi richiedenti asilo, impedendo loro di beneficiare della Convenzione di Ginevra e di godere dunque dei propri diritti fondamentali», sottolineano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell’organizzazione per i diritti umani EveryOne. «Chiediamo pertanto – aggiungono – al Governo italiano, in particolare al ministro Frattini, di attivarsi al più presto per scongiurare un’imminente deportazione che potrebbe mettere in serio pericolo di vita i profughi…». «La soluzione per noi – insiste il responsabile di Habesha – continua a rimanere quella di avviare un programma di reinsediamento. Per tutti i rifugiati e i richiedenti asilo che sono in Libia, l’unica soluzione vera è di essere reinsediati in un Paese che garantisce i loro diritti. È quello che continuano a chiedere: vogliamo essere accolti in un Paese democratico che rispetta i nostri diritti di richiedenti asilo e di rifugiati». Tra questi Paesi c’è l’Italia. Un Paese il cui ministro dell’Interno non perde occasione per esaltare i successi (leggi respingimenti forzati) ottenuti con l’Accordo di Bengasi. Un Paese che ha assistito tra l’incredulo, l’indignato e il compiaciuto ai recenti show del Colonnello «convertitore». Un Paese che nel nome degli affari miliardari con Tripoli è venuto meno al rispetto di Convenzioni ratificate e ai più elementari principi di umanità. Il forziere del Rais. È questo che fa gola. Secondo alcuni, ricorda il corrispondente di El Pais a Roma, Miguel Mora – Gheddafi dispone di una liquidità di circa 65 miliardi di dollari, e punta a nuove partecipazioni in Eni, Impregilo, Finmeccanica, Terna e Generali. Oltre ad essere, con il 7% del pacchetto azionario, il primo azionista di Unicredit, il più grande gruppo bancario italiano, che a sua volta controlla Telecom, Rcs e Assicurazioni generali.

Fonte: l’Unità

6 settembre 2010

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