La trappola Afghanistan


AGI Mondo ONG


Oltre venti operatori umanitari uccisi dall’inizio dell’anno. Cooperanti e militari sempre piu’ nel mirino degli insorti. Le ong chiedono un’apertura di dialogo tra componenti civile e militare per definire ruoli e competenze.


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La trappola Afghanistan

Oltre venti operatori umanitari sono stati uccisi in Afghanistan dall'inizio dell'anno. Vittime che si aggiungono ai circa 1.500 civili (piu' 38 per cento rispetto al 2008, secondo dati forniti il mese scorso dall'Alto commissariato Onu per i Diritti umani) che nello stesso periodo hanno perso la vita sotto il fuoco dei talebani o in un attentato kamikaze della guerriglia islamica o nei raid aerei statunitensi e della Nato. In agosto tre cooperanti straniere e il loro autista afgano furono massacrati dai talebani che, pero', dissero poi di essersi sbagliati: avevano scambiato i quattro per militari. Nei giorni scorsi sempre i talebani hanno rivendicato l'uccisione di un'altra cooperante, questa volta non per errore ma perche' "diffondeva i valori del cristianesimo". Di la' dalle valutazioni degli strateghi sull'andamento della campagna militare, i numeri spiegano la preoccupazione di quanti, impegnati in un'azione umanitaria sempre piu' minacciata, chiedono una riflessione e un'apertura di dialogo tra la componente civile e quella militare per una definizione chiara di ruoli e di competenze.

Prt e confusione dei ruoli civile-militare
In Afghanistan la Nato si e' articolata nei Prt (Provincial reconstruction team, squadre di ricostruzione provinciali), per andare a coprire sul territorio nazionale gli spazi che fino al 2003 erano stati occupati dalle forze di 'Enduring Freedom' impegnate nella 'guerra al terrore' guidata dagli Stati Uniti. I Prt, con l'ambigua definizione di "squadre di ricostruzione", hanno in realta' il compito di concorrere al processo di espansione della Nato in Afghanistan e in particolare di estendere l'influenza del governo centrale a livello provinciale; fornire assistenza alle strutture di sicurezza dell'amministrazione e supporto all'addestramento dell'esercito e delle forze di polizia locali; preparare un ambiente sicuro per le organizzazioni umanitarie e le loro attivita'; facilitare lo scambio di informazioni e sostenere le campagne mediatiche; sviluppare progetti di ricostruzione identificati con le autorita' locali. Quest'ultima parte realizza la nuova strategia Nato volta a "conquistare i cuori e le menti" delle popolazioni attraverso attivita' umanitarie e di ricostruzione a fianco delle attivita' militari. L'effetto pero' -che ong e agenzie umanitarie Onu hanno subito denunciato- e' che si sta distruggendo lo "spazio umanitario", quello che si basa sui principi di umanita', imparzialita', neutralita', indipendenza e non subalternita' ad altri fini. La gente in Afghanistan confonde ormai gli operatori umanitari con i militari che insistono nel fare le stesse cose (distribuzioni, ricostruzioni di scuole e ambulatori ecc.). La presenza e il lavoro umanitario appaiono 'inquinati' e gli operatori, sebbene inermi, sono divenuti bersaglio al pari dei militari. Altro che fornire "un ambiente sicuro per le organizzazioni umanitarie e le loro attivita'", come vorrebbe la Nato. Qualcuno vorrebbe perfino vedere tutta la cooperazione, nel contesto afgano o in contesti simili, come "ancella" dell'intervento militare, magari gestita interamente dagli stessi contingenti. Anche dove la collaborazione tra operatori civili e militari non pone problemi, come nelle missioni di peacekeeping' pienamente legittimate dal Consiglio di Sicurezza e accettate dalle parti in conflitto -per esempio, il Libano- non dovra' essere comunque mai il comando militare a decidere e coordinare l'azione di assistenza o di ricostruzione. L'iniziativa spetta alle agenzie umanitarie e alle cooperazioni civili, in accordo con le autorita' locali, quando esistono. Altrimenti tutto diventa strumentale alle strategie militari e ci si pone al di fuori dell'ambito della cooperazione allo sviluppo, giacche' non e' piu' l'azione umanitaria o di cooperazione che interessa, ma la strumentalizzazione di questa azione ai fini del successo della missione bellica. Anche quando i militari impegnati in queste azioni dimostrano grande generosita' e disponibilita' -come si e' spesso potuto constatare- la strategia che le guida e' funzionale agli scopi bellici: come ottenere informazioni, collaborazione e protezione. In realta' le popolazioni e le amministrazioni locali afgane chiedono alle forze internazionali soprattutto sicurezza su tutto il territorio. Condizione fondamentale per poterlo amministrare, per consolidare le istituzioni decentrate, programmare interventi di ricostruzione e di sviluppo sociale e infrastrutturale, permettere alle popolazioni sfollate di fare ritorno a casa e a quelle presenti di progettare e programmare il proprio futuro. Senza garanzia di sicurezza, ogni sforzo per la ricostruzione sarebbe vano.
 
Le proposte della società civile per fare chiarezza
Gli afgani non si sono mai aspettati dalle forze internazionali interventi umanitari o di ricostruzione (anche se vale anche per loro il proverbio ''a caval donato non si guarda in bocca"), ma di essere tutelati e potersi sentire sicuri nei movimenti e nelle loro attivita' quotidiane. Aspettativa andata finora delusa in molte, troppe aree. Le organizzazioni non governative hanno suggerito un ripensamento dei Prt, al fine di salvaguardare i principi umanitari e il rispetto della sfera umanitaria e di cooperazione. Eccone alcune:
– ogni soggetto svolga le proprie specifiche attivita', quelle per cui e' preparato e formato, senza ambiguita' e confusione di ruoli ed evitando sprechi e danni irreparabili. I militari dei Prt devono focalizzare le proprie attivita' sul loro mandato specifico: garantire la sicurezza alle popolazioni, allo sviluppo del processo istituzionale e alle attivita' delle amministrazioni locali. Dato il grave deterioramento della sicurezza in Afghanistan, questa raccomandazione andrebbe presa in seria considerazione;
– qualora i Prt fossero chiamati dalle amministrazioni locali a sostenere attivita' di ricostruzione urgente con le competenze del Genio, devono limitarsi a quegli interventi infrastrutturali che non sono alla portata delle stesse amministrazioni e, soprattutto, non svolgere iniziative che sono da sempre nell'ambito degli interventi umanitari, quali la salute, l'istruzione, l'acqua, la nutrizione ecc. Le organizzazioni umanitarie hanno sperimentato sulla propria pelle che le "attivita' umanitarie" condotte dai Prt hanno portato all'erosione della sicurezza dei propri operatori, perche' visti in una sovrapposizione con i militari e rapidamente confusi con loro.
– e' comunque auspicabile che, pur nella severa distinzione dei ruoli e delle posizioni, si sviluppi un dialogo tra Prt, amministrazioni pubbliche e comunita' locali, organizzazioni internazionali e ong. L'ascolto dei diversi attori sul territorio gioverebbe senz'altro ai rispettivi mandati, a tutto beneficio delle popolazioni, evitando rischiose sbavature.

Fonte: OngAgiMondo

Editoriale del 24 ottobre 2008

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