La nuova verità sulla morte di Miotto


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La Russa: “È stato un vero e proprio scontro a fuoco, non è stato un singolo cecchino”. L’ultima frase dell’alpino ucciso: “Mi hanno preso”.


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La nuova verità sulla morte di Miotto

HERAT – «Mi hanno colpito». Era cosciente Matteo Miotto quando è stato centrato al collo da un fucile di precisione sovietico mentre si trovava sulla garitta della base "Snow", nella valle del Gulistan. È morto subito dopo, soprattutto dopo aver fatto fuoco più volte contro gli insorti che avevano attaccato l’avamposto italiano. Non è stata, insomma, «l’azione di un cecchino isolato, ma di un gruppo di terroristi».

La ricostruzione dei fatti che il ministro della Difesa Igazio La Russa ha consegnato oggi ai giornalisti apre un nuovo scenario sulla morte del giovane alpino, ammazzato la notte di Capodanno. Anche se in un secondo momento il ministro ha spiegato di aver solo integrato la prima versione. È stato ucciso da un cecchino – ha affermato – solo che questo cecchino non ha sparato un solo colpo, ma diversi colpi. Si può pensare che non fosse solo, anzi è probabile che ci fossero altri 4o 5 uomini di copertura, ma è possibile che a sparare da lontano sia stato soltanto lui». Ma sul giallo della presunta nuova versione del ministro il Pd ha chiesto a La Russa di riferire alle Camere.

«È stato un vero e proprio scontro a fuoco», ha detto La Russa, arrivato oggi in Afghanistan per salutare i militari italiani e rendere omaggio ancora una volta alla memoria di Miotto, «il cui nome – ha detto, parlando davanti ai militari schierati in un hangar – si aggiunge ad una lista ormai troppo lunga». Gli "insurgnts" che hanno attaccato la base («difficile dire quanti fossero, un gruppo», ha spiegato il generale Marcello Bellaccco, comandante del contingente) hanno cominciato a sparare con armi leggere. I militari italiani hanno risposto. «Miotto, che faceva parte di una forza di pronto impiego – ha ricostruito La Russa – è andato sulla garitta, come previsto, a dare manforte al soldato che c’era. Sparavano a turno: uno sparava e l’altro si abbassava. È stato proprio mentre si stava abbassando che Matteo è stato centrato al collo. "Mi hanno colpito", ha detto. Poi si è accasciato ed è morto».

Dall’esame del proiettile è stato possibile risalire all’arma che ha fatto fuoco: «Un fucile di precisione Drogunov degli anni ’50 di fabbricazione sovietica. Si trova anche al mercato nero di Farah», ha spiegato La Russa. Il generale Bellacicco, a chi gli chiede se l’utilizzo di questo fucile "da cecchino" sia frequente nel’ovest dell’Afghanistan, risponde che «è una "new entry". Negli ultimi tempi però la presenza di cecchini è aumentata e per questo stiamo anche verificando se per caso sia stata intodotta nella nostra area una partita di questo tipo di fucili da precisione». La battaglia alla base Snow si è conclusa «dopo diverse decine di minuti», anche in seguito all’intervento di un aereo americano che ha sganciato almeno una bomba. Non si sa se abbia fatto vittime tra gli insorti. Di sicuro, di questi si sono perse le tracce. L’attacco alla base Snow è uno di quelli che «ogni giorno» subiscono i militari italiani in Afghanistan. «Sono stupito», deve ammettere La Russa.

«Mi aspettavo – aggiunge il tirolare della Difesa – che con l’inverno il numero degli attacchi diminuisse, invece così non è stato. Non posso dire che il pericolo è aumentato, ma di sicuro non è diminuito. La situazione è diversificata: ad Herat il rischio è quello dell’attentato, come è stato in passato per alcune città europee minacciate dal terrorismo; in villaggi come Bala Murghab o nel Gulistan, invece, ogni giorno i nostri ragazzi si devono difendere dagli attacchi. Gli scontri a fuoco sono anche più di uno al giorno». A fornire i numeri è il comandante del contingente: «Dal 18 ottobre – spiega Bellacicco – gli attacchi subiti con armi leggere sono stati 27; 5 quelli con mortai; 6 quelli combinati (armi leggere e mortai); 5 gli attentati con ordigni esplosivi; 57 i ritrovamenti di armi; 28 le azioni ostili subite considerate ’"minori"». Ma «tutto questo avviene – sostiene La Russa – perchè diamo fastidio, insediamo i nostri avamposti dovunque, ampliamo insieme alle forze locali le aree sicure, consentiamo alla gente di tornare nei loro villaggi. Insomma, la fase di transizione va avanti, la tempistica sembra finora rispettata, ma nessuno si illuda che sia una fase agevole, senza rischi e pericoli». Ma quanto durerà? «Ce ne andremo quando gli afgani saranno in grado di fare fronte da soli alla minaccia. Certo, non quando non ci sarà più la minaccia, perchè altrimenti restiamo qui tutta la vita», risponde La Russa.

Fonte: La Stampa

5 gennaio 2011

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