La guerra è finita, veniamo in pace!


il Manifesto


Dal campo di battaglia al media center governativo, i nuovi padroni di Kabul vogliono rassicurare la popolazione e il mondo.


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La guerra afghana è finita, si apre una nuova fase di conciliazione e ricostruzione. Nessuno deve temere. Nella prima conferenza pubblica dopo la presa del potere, i Talebani provano a rassicurare la popolazione e la comunità internazionale.

A parlare è Zabiullah Mujahid, il più noto tra i portavoce del movimento. Appare in pubblico per la prima volta, dopo anni di latitanza e poco prima che a Kandahar rientrasse, dopo lunghi anni all’estero, mullah Abdul Ghani Baradar, il volto diplomatico dei Talebani e l’artefice della trappola agli Stati uniti.
Ma dalla valle del Panjshir, unica zona del Paese non ancora sotto il controllo degli studenti coranici, l’ex vice-presidente Amrullah Saleh dice che secondo la Costituzione, ancora in vigore, è lui il presidente reggente. Già a capo dei servizi segreti, fiero anti-talebano, nei giorni scorsi aveva promesso che non avrebbe mai sottostato al regime talebano.

Due giorni fa abbiamo scritto che secondo informazioni attendibili era nel Panjshir con il figlio del comandante Ahmad Masud. Ieri la dichiarazione ufficiale, che apre una questione istituzionale a cui l’intera comunità internazionale dovrà rispondere nei prossimi giorni. Chi rappresenta il governo e le istituzioni? Amrullah Saleh, isolato nel Panjshir, oppure i Talebani, che hanno conquistato con la forza l’Arg, il palazzo presidenziale, facendo sbriciolare le istituzioni sostenute per 20 anni dalla comunità internazionale?

I TALEBANI non sembrano preoccuparsene. Ieri erano troppo impegnati a celebrare. Al sud, nella provincia di Kandahar, dove nel 1996 mullah Omar venne investito del titolo di Amir al-Mumineen, il comandante dei fedeli, è arrivato Baradar, riverito come l’abile diplomatico che ha ingannato tutti, a partire da Zalmay Khalilzad, l’inviato di Trump e poi di Biden che pensava di imbrigliare gli studenti coranici e portarli alla condivisione del potere. Il potere se lo sono preso con la forza, con un’offensiva militare durata meno di due settimane e culminata con la resa di Kabul. Senza spargimento di sangue. Un punto già capitalizzano nella loro propaganda.

Da ieri la propaganda ha cambiato modalità. Si fa comunicazione istituzionale. Primo tentativo di intraprendere il percorso da forza di opposizione armata a forza di governo. È la transizione che dovrà affrontare, non senza scossoni interni, il movimento guidato da mullah Omar, poi da mullah Mansur – finito polverizzato nel 2016 nel Belucistan pachistano – e infine, dal 2016, dall’attuale leader Haibatullah Akhundzada, che eletto come uomo di mediazione dovrà mediare ora tra interessi confliggenti.

LA SEDE DELLA PRIMA conferenza stampa non è casuale. Fa parte del ministero della Cultura. La stanza in cui ieri ha parlato Zabiullah Mujahid è quella in cui era solito sedere Dawa Khan Menapal, a capo del Centro per l’informazione e i media del governo retto da Ashraf Ghani, il presidente fuggito. Menapal è stato freddato con un omicidio mirato rivendicato ai primi di agosto dallo stesso portavoce del movimento che ieri si rivolgeva al pubblico, a Kabul.

Zabiullah Mujahid ha sostenuto che la guerra è finita con la vittoria dei Talebani. Ha confermato l’amnistia per tutti i funzionari governativi e i soldati. Ha detto che anche le donne potranno svolgere un ruolo importante nel futuro del Paese, secondo il diritto islamico. Quanto allo Stato che hanno in mente, ancora nulla di chiaro. Per anni sono ricorsi alla formula magica: «Vogliamo un vero sistema islamico». Ora devono spiegare quale, di che tipo, come organizzato.

I TALEBANI SI SONO RIVOLTI al popolo afghano e alla comunità internazionale. Ma pensavano soprattutto al pubblico esterno, a cui hanno assicurato che dal territorio afghano non arriverà nessuna minaccia. È da fuori che potrà venire quel riconoscimento a cui ancora ambiscono. Usano parole d’ordine conosciute ovunque: amnistia, libertà d’espressione, diritti delle donne. Se in questi venti anni di opposizione armata e scaltri giochi diplomatici hanno imparato qualcosa, è l’uso dei mezzi di comunicazione. La rapidità dell’offensiva militare, con le rese, i patti sottobanco, i soldati governativi fuggiti, è dipesa anche dall’uso capillare di media e social media. Che hanno proiettato dentro e fuori i Paese l’immagine dell’inevitabilità della disfatta di Kabul. Ora che sono al potere, parlano la lingua che ci si aspetta che parlino. Ma la vera partita si gioca fuori da Kabul, nel resto del Paese, dove ora – con l’evacuazione degli stranieri e i giornalisti locali sotto osservazione – c’è scarsa attenzione. Lì si valuterà la congruenza tra le dichiarazioni ufficiali e le politiche quotidiane. Quando l’interesse mediatico sarà scemato e la popolazione si troverà a fronteggiare un regime di cui non ci si può fidare

PRIMA DI ALLORA, i Talebani sfrutteranno le divisioni della comunità internazionale. Dopo Islamabad, Pechino e Mosca – i tre principali sponsor dei Talebani – ieri anche Teheran ha detto che manterrà aperta l’ambasciata a Kabul. Il ministro degli Esteri turco ha valutato come «positive» le rassicurazioni dei Talebani sulla protezione delle sedi diplomatiche straniere. Tanto positive che Ankara non ha ancora rinunciato all’idea di garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul, di cui ha a lungo discusso con Washington. Ora ne parla con i Talebani. Il dialogo con loro passerà necessariamente anche per la questione migratoria. La Turchia giorni fa aveva criticato la decisione del dipartimento di Stato Usa di allargare i criteri per la concessione del visto agli afghani che avevano collaborato con Washington. E in questi giorni ha cominciato a costruire un muro al confine con l’Iran per impedire l’ingresso di rifugiati afghani.
Per ora il muro è di 5 chilometri, riporta la Reuters. Ma diventerà di 295 chilometri. Serve a bloccare gli afghani e le afghane. I tanti che restano nel Paese aspettano con inquietudine di vedere quando i Talebani scopriranno le carte, oltre le dichiarazioni pubbliche.

Giuliano Battiston
18 agosto 2021
Il Manifesto

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