Kabul: rock e graffiti da battaglia


Giuliano Battiston


Il Sound Central Festival che si è svolto nella capitale afghana offre ai giovani un luogo in cui sognare, ma pieno di contraddizioni.


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“Sono occasioni importanti, perché si respira un’aria diversa dal solito, si sperimentano cose nuove. A me piacciono le cose nuove”. Camicia a maniche corte sopra un paio di jeans ben stirati, sciarpetta intorno al collo, occhi celesti, Zabi Siddiq è uno dei tanti ventenni venuti al centro culturale francese di Kabul, accanto al liceo Esteqlal, per assistere al Sound Central, il Central Asia’s Modern Music Festival. “L’idea è uscita fuori tre anni fa circa” spiega il fotogiornalista Trevis Beard, che del Festival è ideatore e organizzatore. “Io e i miei amici ci eravamo stufati di quanto offriva la scena musicale e culturale di Kabul, così nel 2011 abbiamo organizzato il primo grande evento, che è durato un giorno e ospitava 8 gruppi musicali”.

Da allora, il Festival è cresciuto molto: gli sponsor sono aumentati – “i costi si aggirano intorno ai 40.000 dollari”, dice Trevis -, e tra questi c’è l’Agenzia svizzera per la cooperazione e lo sviluppo, l’ambasciata australiana, quella della repubblica ceca, la cooperazione estone, gli olandesi, gli inglesi, i canadesi, oltre a sponsor privati. I giorni sono diventati quattro, fitti di appuntamenti, con concerti di musica rock ed heavy metal, performance di rap, dj set, una mostra fotografica, un’esposizione di quadri, piste per gli skateboard, tele per i graffitari, una selezione di video; “Anche il pubblico cresce”, sottolinea l’organizzatore, membro della rock-band White City, mentre risponde al walkie-talkie e sorseggia un energy-drink.

Il pubblico è composto da due gruppi. Ci sono gli stranieri, giornalisti, fotografi, membri delle organizzazioni non governative, “espatriati” (expat) in genere. E poi ci sono ragazzi giovanissimi vestiti all’occidentale, con i capelli impomatati e le t-shirt disegnate, che parlano inglese con accento americano o provano a farlo, portano sneakers colorate o grosse scarpe da ginnastica slacciate, con le solette di fuori. Oltre a (poche) ragazzine che gironzolano tra gli stand con piglio sicuro e smartphone in mano.

Nel cortile di questo centro voluto alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso dall’allora presidente francese Giscard d’Estaing e dal suo omologo afghano Mohammad Daoud, su una pista di legno riempita di graffiti, uno degli skater dell’associazione skate-aid volteggia con la tavola. Ai lati della pista, campeggiano le gigantografie di “Streets of Afghanistan”, il progetto realizzato da Mountain 2 Mountain, un collettivo di fotografi che include afghani e “internazionali”. Le foto descrivono la vita quotidiana: un elettricista sistema il groviglio di fili su un lampione; le sarte cuciono burqa; delle bambine si riparano dalla neve con un enorme ombrello; e poi gli splendi paesaggi della campagna in primavera e il “lungofiume” centrale di Kabul, recentemente restaurato e affollato di gente.
Finite le piroette, lo skater si ferma, aggiusta i pantaloni, sistema la maglietta, siede sulla pista, corruccia l’espressione e si mette in posa per le foto. In lontananza, dietro gli alberi, la cupola rossastra del mausoleo di Abdur Rahman, emiro d’Afghanistan dal 1880 al 1901, è l’unica cosa a ricordarci che siamo in Afghanistan, non nella periferia di una città statunitense.

Nello spazio esterno all’altro lato dell’edificio, un palco è riservato ai dj che si alternano pompando musica techno a tutto volume, sopra un cartello plastificato che recita “turn it up”. Dietro al palco, di nascosto, qualche “expat” si rilassa affidandosi agli effetti delle ottime resine locali. Alla destra, sotto un tendone viola, Reza Amiri (in arte Reza) finisce di sistemare il suo graffito al muro. Qui la cultura di strada, illegale e irregolare, è già stata addomesticata alle ragioni del Festival: i graffiti non si fanno sui muri, ma su teli che vengono affissi e rimossi. Reza ha cominciato a realizzare graffiti “un anno fa, dopo un seminario di due settimane tenuto alla facoltà di Arte dell’università di Kabul e organizzato dal National Center for Policy Research”, un centro di ricerca fondato nel 2003 dai tedeschi del Konrad-Adenauer-Stiftung. I graffiti gli piacciono “perché sono una forma di espressione nuova, poco conosciuta ma molto diretta”, spiega mentre sistema alla parete il suo lavoro, una tela di 4 metri di lunghezza con un volto di donna dagli occhi ipnotici e una scritta che recita “Let me Breath”, lasciatemi respirare. “E’ un lavoro che parla della condizione delle donne, del loro desiderio di libertà”, racconta, aggiungendo di essere stato allievo di Shamsia Hassani, la ventiquattrenne passata alle cronache, insieme alla ventitreenne Malina Suliman, come la “prima graffitara” in Afghanistan.

Folad Anzurgar si affida invece a strumenti più ortodossi. Ha 27 anni, da quando ne aveva 15 dipinge a olio, “grazie a mio padre, che è un ottimo pittore e insegna all’università di Kabul”. Non è la prima volta che espone le sue opere. “L’ho già fatto in Pakistan, al centro culturale francese di Peshawar, qui a Kabul su invito dell’ambasciata americana e poi di Isaf (la missione della Nato, ndr), oltre che negli spazi di Aina”, un’associazione non-governativa che lavora sui temi dell’educazione e della comunicazione. Folad studia arte all’università, perché vuole diventare “un pittore con una buona educazione”, ma della sua passione ha già fatto anche una professione, almeno in parte: “ho un sito internet, molti dei miei quadri riesco anche a venderli, qualcuno agli afghani, che sono il 20% degli acquirenti, molti di più agli stranieri, come il tedesco a cui poco fa ho venduto due quadri per 3.700 dollari”. Preferisce ritrarre “momenti fondamentali e comuni della nostra cultura tradizionale”, vuole “raccontare la sofferenza della guerra e la bellezza della pace”. Mostra con orgoglio un quadro, che sintetizza le sue intenzioni. All’interno di una stanza, davanti a un muro che porta i segni della guerra, un gruppo di ragazzine segue con attenzione la lezione di una maestra, simbolo di un futuro migliore.

Mentre Folad parla, dall’auditorium/teatro centrale – 200 posti circa e un palco ben attrezzato per le band – arriva la musica rock a tutto volume del gruppo uzbeco Tears of the Sun. A lui quella musica non piace, ma non teme le contaminazioni culturali e le novità: “sono cose che piacciono ai più giovani, e comunque possono entrare a far parte del nostro patrimonio, non lo mettono in pericolo”, spiega. “Al tempo dei Talebani ogni forma d’arte era proibita. Ora almeno possiamo scegliere”.

Folad non è l’unico a pensare che non ci sia contrasto tra nuove e vecchie espressioni culturali. Volto imberbe, sguardo sveglio e parlantina veloce, i modi fin troppo disinvolti di chi è abituato a parlare con i giornalisti stranieri, Sulyman Qardash è il cantante e leader del gruppo rock Kabul Dreams, che a fine aprile ha presentato il nuovo album, “Plastic Words”. “Siamo stati il primo gruppo rock afghano”, rivendica subito. “Ma se non lo avessimo fatto noi, lo avrebbe fatto qualcun altro. Era inevitabile che accadesse, perché ai ragazzi piace questa musica”, anche se le occasioni per suonarla e ascoltarla sono poche: “a Kabul ci sono soltanto alcuni caffè universitari dove si può suonare in pubblico, per il resto niente”. Qardash sostiene che il suo gruppo gode già di un buon seguito, ma fuori dalla capitale afghana i Kabul Dreams non hanno mai suonato, anche se vorrebbero farlo quest’estate a Mazar-e-Sharif, nel nord. In compenso, la loro storia è stata raccontata dai grandi media internazionali, “compresa la Bbc”, e hanno tenuto concerti all’estero: “in India, Turchia, Pakistan, Estonia, Uzbekistan”. Per lui è all’estero che bisogna guardare, “perché il mercato è lì, qui invece non c’è modo di farsi pagare per la propria musica”.

Volto impeccabile di quell’Afghanistan che piace tanto a noi occidentali perché accoglie mimeticamente la nostra “modernità”, Qardash studia Economia all’università, ma ogni giorno suona almeno due ore con gli amici. Per lui, “lo studio è una professione, la musica è la carriera”. Compiaciuto della maschera di mini-rock-star di un paese in guerra che gli è stata cucita addosso, il leader dei Kabul Dreams prende le cose come vengono, e non sembra affatto dispiacergli il ruolo che riveste nel circo politico-mediatico afghano. Residente da diversi anni nel paese, consulente per organizzazioni non governative, Trevis Beard, l’organizzatore del Sound Central è consapevole che il suo festival “è parte di un gioco più grande”. E che fare musica e cultura in un paese in guerra vuol dire, inevitabilmente, essere parte della battaglia per influenzare i cuori e le menti di chi ci vive e di chi, lontano, aspetta di conoscere i risultati di un’occupazione militare che dura ormai da dodici anni. Dei rischi impliciti in un evento del genere – normalizzare l’occupazione militare con strumenti artistici, restituire un’immagine dell’Afghanistan che riguarda solo una parte molto minoritaria del paese – Trevis sembra non preoccuparsi: “riceviamo finanziamenti da soggetti internazionali, certo, ma non hanno alcuna influenza sul nostro programma. Siamo del tutto liberi da ogni condizionamento politico”.

A chi obietta che iniziative come il Sound Central introducono pratiche culturali estranee al contesto afghano, Beard risponde che “è vero, senza dubbio lo facciamo. Ma senza imporre nulla. Non abbiamo scuole, non teniamo lezioni, non siamo un soggetto istituzionale. Creiamo solo una piattaforma da cui gli afghani possano partire”. Su questo le idee più chiare sembra averle proprio Zabi Siddiq, il ventenne dagli occhi celesti incontrato all’ingresso del centro culturale francese: “i sauditi e i pachistani portano in Afghanistan i loro modelli culturali con soldi, moschee, madrase. Gli occidentali fanno lo stesso con concerti, graffiti e film”. Meno fragorosa di quella militare, in Afghanistan è in corso una battaglia forse più importante. Ha a che vedere con modelli sociali e tendenze culturali. Gli interessi in gioco sono tanti, gli attori molteplici. Gli esiti – a differenza dello scontro militare tra Nato-Isaf e gruppi antigovernativi, ormai perso dai primi – del tutto imprevedibili.

Fonte: Il Manifesto
11 maggio 2013

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