Battaglia a Kabul


Theo Guzman


Commando talebani all’assalto, alla vigilia di una visita importante, demoliscono i piani di sicurezza che "proteggono" Kabul. Una trentina i morti, sessanta i feriti.


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Battaglia a Kabul

Kabul – Un piano preparato con precisione e determinatezza. A solo qualche giorno dall'annuncio che la cellula logistica talebana in città era stata in gran parte smantellata. Poco dopo che , in visita in Canada, il capo di stato maggiore americano Mike Mullen lancia un appello sulla necessità di aumentare le truppe in Afghanistan. E alla vigilia del viaggio di Richard Holbrooke, inviato speciale di Obama, a Kabul.
Se la fortuna, il destino o la pianificazione abbiano messo assieme tutto questo è difficile dirlo. Certo è che l'attacco sincronizzato ieri nella capitale afgana contro diversi obiettivi istituzionali, con un bilancio ancora incerto tra feriti e vittime (quasi una trentina in totale), segna un punto a vantaggio dei talebani. Che si presentano forti e organizzati davanti a una città sempre più spaventata, quando non rassegnata, e che si prepara ad accogliere l'uomo scelto dalla Casa Bianca per delineare la nuova strategia per far uscire il conflitto dalle secche. Secche nelle quali i talebani dimostrano di riuscire a muoversi tranquilli sfidando il cuore dello stato, i suoi luoghi più rappresentativi e la rappresentazione stessa della sicurezza.
La bufera di fuoco comincia tra le 10 e le 10 e trenta del mattino, un orario caro agli attentatori. Agiscono almeno in tre gruppi separati, due dei quali nel centro cittadino, a quell'ora affollatissimo. L'obiettivo è entrare in due ministeri e nel cuore dell'Amministrazione penitenziaria dove, proprio ieri mattina, si teneva un corso di formazione. Il commando è imbottito di esplosivo ma è anche ben armato. Non c' è solo da farsi saltare, ammazzando qualche poliziotto e qualche passante casuale: questa volta i talebani vogliono entrare. E, in un caso, ci riescono platealmente, con perfetta sincronia: davanti al ministero della Giustizia otto kamikaze scatenano il panico e si aprono la strada che porta al dicastero. Entrano, forse pensando di guadagnare i piani alti dove il ministro stra leggendo le sue carte. Ma gli va male e alcuni vengono stesi all'ingresso dalle guardie. Per gli altri, la caccia all'uomo dura un paio ore. I cecchini della polizia si appostano. Studiano il da farsi. Aspettano ordini e poi si muovono salendo dalle finestre. Si scambiano colpi d'arma da fuoco con il commando nel panico e nel fuggi fuggi generale. E alla fine i corpi speciali hanno ragione dei guerriglieri. La vicenda si conclude con la morte dei kamikaze e una lunga scia di sangue, tra esplosioni e pallottole vaganti. Più tardi viene rivelato che si tratta di “pachistani”, etichetta che per ora è solo uno dei tanti rumor su una ricostruzione incerta.
In realtà quel che appare chiaro in poche ore è che i talebani, che hanno rivendicato gli attacchi con tempismo, volevano colpire sì le istituzioni, ma soprattutto i simboli del sistema giudiziario: degli almeno tre attacchi – in un primo momento si era anche indicato come target il ministero delle Finanze che si trova in zona – due sono stati diretti ai simboli ella giustizia. Il terzo al ministero dell'Educazione, poco protetto e nel quale l'attentatore non è riuscito a entrare, facendosi saltare all'ingresso e uccidendo una guardia. Al ministero della Giustizia invece è stata vera e propria battaglia. Polizia ed esercito afgani sono arrivati a tempo record e hanno circondato l'edificio, ingaggiando poi una sparatoria protrattasi per ore. Un consulente americano del ministero, che è riuscito a scappare durante lo scappa fuggi generale, ha detto di averlo fatto "…saltando sopra i corpi dei cadaveri". E anche il ministro, che era al dicastero, dev'essersela vista brutta, chiuso nel suo ufficio e protetto dalla scorta.
Mentre il kamikaze solitario agiva al ministero dell'educazione e i guerriglieri entravano al ministero della Giustizia (nella zona commerciale a pochi passi dal fiume, dal palazzo presidenziale e poco lontano da altri dicasteri), un altro commando, composto da un paio di uomini bomba, assaltava il Direttorato delle carceri – il centro amministrativo del settore penitenziario – facendosi saltare in aria. Il centro si trova a Khairkhana, nella zona Nord della città, lontano dal centro. Una dozzina le vittime. E mentre la battaglia al ministero è ancora in corso, i talebani rivendicano le azioni con l'inviato locale di Al Jazeera, denunciando la condizione dei carcerati, gli ingiusti imprigionamenti e le sentenze contro i loro affiliati. Una risposta, secondo altre fonti citate dalle radio locali, anche alla richiesta, negata, di liberare alcuni prigionieri. In una rivendicazione all'agenzia di stampa Xinhua, un altro portavoce talebano ha invece raccontato che erano 16 gli appartenenti al commando che doveva spargere il terrore in città. E' questa dichiarazione che scatena il panico e gli allerta hanno cominciato a mettere in guardia sulla possibilità che almeno altri due gruppi stessero ancora cercando il loro obiettivo di morte.
Un'altra ipotesi che circola è che queste siano bombe sul processo negoziale, appena rivendicato a Monaco da Karzai.
Il bilancio resta incerto e per tutto il giorno oscillerà tra la decina e la ventina di vittime. Trenta, alla fine, considerando gli otto kamikaze uccisi. Una sessantina i feriti. "Scala e complessità dell'attacco fanno fare un salto di qualità di alto profilo", commenta una fonte dell'intelligence secondo cui si è mirato "a target istituzionali di alta visibilità, anche se relativamente vulnerabili". Il ministero di Giustizia del resto non è la prima volta che finisce nel mirino. E da poco vi è stato eretto davanti un muro. Ma nulla in confronto ad altri dicasteri, come quello dell'Interno, super protetto da sbarramenti e cordoni di cemento. I collegamenti con Mumaby si sprecano anche se sembrano inadatti a spiegare la complessità locale. Che si alimenta di una domanda che la gente si fa per la strada: "Al Qaeda? Pachistani?". E' la consolazione di cui si nutre la gente qui in città, detestando l'idea che un afgano possa ammazzare tanta gente e uccidere se stesso. “Da noi non si fanno certe cose”, commenta un residente.
Nel piccolo ristorante dove pranziamo la Tv è accesa. La gente guarda tra un piatto di fagioli rossi e di riso con pinoli e uvette, sorseggiando il tè. Commenta sospirando un servizio che dura incredibilmente poco, come se la Tv di stato preferisse bypassare l'argomento che certo non fa onore alle misure di sicurezza, incredibilmente aumentate da che c'è stato, alcune settimane fa, l'attentato tra un grosso compound di truppe americane e l'ambasciata tedesca. Ma quando la telecamera indugia sulle macchie di sangue e cervello sparse all'ingresso del ministero, i commenti si fanno meno sommessi. Quando toccherà al prossimo? Quando finirà questa guerra dannata? Quale altro parente ci sarà rimasto?
Si aspetta il prossimo bollettino dagli ospedali di Emergency e Aliabad, entrambi a Sharenaw e dove sono avvenuti la maggior parte dei ricoveri. Eravamo proprio lì dopo l'attentato che ha coinvolto i tedeschi: “Grazie a Dio – ci diceva un medico dell'ospedale fondato da Gino Strada – ora ci occupiamo soprattutto di incidenti di traffico”. Ma è durata poco. La tregua invernale è già finita.

Fonte: Lettera22

12 febbraio 2009

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