In fuga dalla Libia in fiamme


Francesca La Bella - Nena News


L’Italia preme per un intervento armato che le garantirebbe un ruolo centrale nella successiva ricostruzione istituzionale ed economica della Libia


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libiaguerra

 

Dopo una prima fase di esitazione, le rappresentanze diplomatiche europee e quella statunitense hanno dato inizio all’esodo dal territorio libico. Se nelle settimane passate, nonostante gli scontri tra le opposte fazioni avessero veicolato una condizione di insicurezza diffusa, i governi internazionali erano stati cauti nei confronti della possibilità di evacuazione dei propri cittadini, oggi questa sembra l’unica strada percorribile. La maggior parte delle ambasciate e delle rappresentanze consolari è stata chiusa, gli inviti a non recarsi in territorio libico sono innumerevoli così come le raccomandazioni a non frequentare luoghi affollati o a uscire da case e alberghi in orario notturno.

Parallelamente, le diplomazie internazionali hanno messo in moto tutti i possibili meccanismi per garantire l’allontanamento sicuro dei propri cittadini: la Gran Bretagna ha inviato una fregata della Royal Navy per recuperare i cittadini britannici ancora presenti nel Paese, mentre molti convogli internazionali hanno varcato il confine con la Tunisia prima che questo venisse chiuso per motivi di sicurezza. Il valico di Ras Ajdir tra Libia e Tunisia è stato la via di fuga anche per molti libici e per la maggior parte degli egiziani che vivono nel Paese. A causa dell’imponente afflusso di profughi e per paura di un effetto contagio al proprio interno, Tunisi ha, però, scelto di aprire le proprie porte in maniera selettiva e discontinua. Questo ha fatto sì che la via del mare diventasse una delle opzioni più facilmente percorribili e, date anche le condizioni climatiche sufficientemente favorevoli, molti potrebbero essere gli sbarchi (e gli incidenti in mare) di cittadini libici sulle coste del sud dell’Europa in generale e dell’Italia in particolare.

Questo mentre nel Paese la situazione di confusione e di totale instabilità non accenna a migliorare. Dopo l’incendio di uno dei maggiori depositi di carburante di Tripoli, il sequestro di poche ore dell’ex primo ministro moderato Mustafa Abushagur e la proclamazione dell’Emirato islamico a Bengasi da parte degli islamisti di Ansar al-Sharia, la convocazione della prima seduta del nuovo Parlamento eletto è stata spostata per motivi di sicurezza. La seduta, che avrebbe dovuto tenersi il 4 agosto a Tripoli, è stata anticipata al 2 agosto a Tobruk, città portuale a circa 200km da Bengasi, ritenuta più sicura in quanto meno centrale nelle dinamiche di spartizione del Paese. Un tentativo, quindi, di garantire maggiore serenità nel lavoro parlamentare per costruire un Governo di unità nazionale che riesca a tenere insieme le diverse anime della galassia politica libica. Compito quantomeno impegnativo in una fase in cui lo scollamento tra le rappresentanze politiche e la popolazione in senso ampio è ben rappresentato dalla percentuale di votanti delle ultime elezioni: solo il 20 per cento e solo in alcune zone del Paese, mentre in altre non è stato possibile nemmeno portare a termine la fase di votazione.

La situazione è, dunque, particolarmente critica. Gli scontri armati sono all’ordine del giorno e diffusi quasi ad ogni area del Paese con conseguenze tragiche in termini umanitari, mentre le nazioni limitrofe, che potrebbero avere un ruolo di protezione della popolazione libica, sono preoccupate da un possibile contagio simile a quello avvenuto durante le Primavere Arabe e temono attentati sul proprio territorio e, di conseguenza, scelgono un profilo di intervento moderato.

In questo contesto  la posizione europea acquista importanza. La richiesta di intervento internazionale degli inizi di luglio da parte del Ministro degli Esteri libico sembra rimasta pressoché inascoltata e l’imponente esodo di internazionali (anche le maggiori compagnie petrolifere hanno trasferito i loro tecnici su piattaforme off-shore) è un segno tangibile del timore di un ulteriore peggioramento della situazione. A differenza di altre fasi in cui l’interventismo occidentale era stato ben evidente, in questo momento solo l’Italia sembra essere interessata ad avere un ruolo significativo nella questione. Questo non deve, però, confondere: non manca interesse per la stabilità (perlopiù economica) libica, mancherebbero, invece, figure di riferimento nel Paese che possano essere considerate credibili per gli investitori internazionali. Nonostante questo, dopo la visita al Cairo del primo ministro Matteo Renzi, l’intervento sembra più vicino. Durante i colloqui, incentrati sulle questioni mediterranee e, quindi, in maniera quasi esclusiva su Gaza e Libia, il premier italiano e il Generale Abdel Fattah al-Sisi hanno concordato sull’importanza di una risoluzione della questione libica per entrambi i Paesi, e Renzi ha affermato che l’Italia porterà la propria proposta di intervento durante il vertice NATO dal 4 e 5 settembre in Galles. In una fase in cui anche il Ministero degli esteri invita gli investitori alla cautela e il programma Mare Nostrum di monitoraggio della migrazione nel Mediterraneo sembra essere fallito, la possibilità di un intervento internazionale su spinta italiana garantirebbe al Paese un ruolo centrale nella successiva ricostruzione istituzionale ed economica della Libia.

Il destino della Libia non dipende, quindi, solo dalla “balance of power” tra le diverse componenti della società libica, ma anche da come i diversi attori internazionali si muoveranno per tutelare i propri interessi e cercare di guadagnare il più possibile, sia in termini più strettamente economici, sia in termini di influenza, da un cambiamento dell’attuale situazione.

 

Fonte: http://nena-news.it

7 agosto 2014

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