Il fallimento di Bush in un lancio di scarpe


Ascanio Celestini


Il gesto del giornalista iracheno che ha scagliato le proprie scarpe contro il Presidente Usa mentre dichiarava “la guerra non è finita” è diventato un gesto simbolo. Come racconta Celestini. Tanto più che il lanciatore ha accompagnato il gesto chiamando “cane” il suo bersaglio.


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Il fallimento di Bush in un lancio di scarpe

Un miliardo e duecento milioni di islamici infestano il mondo. Cavallette che ci rubano il lavoro, violentano le nostre donne, impacchettano le loro femmine sottomesse dietro veli e palandrane, bombardano grattacieli americani con aeroplani ripieni di gente, fanno esplodere metropolitane e autobus, organizzano sassaiole contro militari indifesi, si ubriacano nei nostri quartieri pisciando sui muri, spacciano droga intossicando i bravi ragazzi che sono la futura classe dirigente, fanno sobbalzare i grassi nel sangue occidentale con polpette fritte e panini unti, impuzzoniscono i sedili di splendenti mezzi pubblici dove profumati cristiani depositano i propri igienici deretani. Sono gli stessi che appena gli capita svestono le loro castissime donne svendendole nelle strade malfamate delle nostre città. Sono zozzoni irrecuperabili e se noi non fossimo moderne personcine democratiche fino al midollo dovremmo raschiare nel fondo del pensiero lombrosiano e dire che sono razze inferiori. Persino i migliori, i pochi laureati tra questi scimmiotti, nonostante abbiano avuto l’onore di essere ammessi al discorso di addio del buon George W. Bush, si sfilano le scarpe e gliele lanciano addosso.
Questa potrebbe essere una versione dei fatti. Magari non con tutte queste immagini insieme. Magari il termine “scimmiotto” potrebbe essere usato in un bar romano e caciarone dove l’islamico è visto come violentatore, ubriacone e piscione puzzolente. Forse nella terra del carroccio si preferisce immaginarli come ladri di lavoro e terroristi che si riuniscono in una moschea nonostante qualche onesto attivista padano porti il proprio suino da passeggio a orinare da quelle parti. E’ probabile che nel mezzogiorno baciato dal sole i temibili venditori di kebab e falafel impauriscano gli stimabili cittadini per la loro morfologia visibilmente differente dai tratti ariani caratteristici di questo spicchio d’Italia e certamente ai più accorti non potrà sfuggire che questi pezzenti sbarcati in gommone sono naturalmente spinti a traviare i giovani mediante spaccio di droga.
Certo che l’ALTRO è proprio difficile immaginarmelo come me. Se mi accorgo che c’ha qualcosa di diverso devo subito metterlo un palmo più in basso rispetto al mio grado di civiltà, igiene, rispetto, eccetera. In più questi islamici ci fanno paura per un sacco di motivi, e non ultimo per il fatto che c’hanno un Dio che si chiama in maniera differente dal nostro. “Ma Dio in arabo si dice Allah” mi ricorda un’amica. Ma quale Dio in particolare? Un cattolico arabo (e ce ne sono) come chiamerebbe il suo Dio? E un ebreo che si esprime in quella lingua? L’amica mi dice che Allah è solo una parola. Come la parola Dio o God. Certo che la questione è complicata, un fedele dell’Islam spesso enfatizza la doppia elle, considera il suo essere superiore come unico e indivisibile, tradizionalmente gli attribuisce novantanove nomi. Certo che quel Dio non ha figli e Gesù Cristo è solo un profeta. Certo che l’etimologia ci racconta molto del significato di un vocabolo. Certo che le parole non sono soltanto la loro definizione sul vocabolario. Perché poi ci stanno le persone, esseri umani con nome e cognome proprio, con la propria cultura, individui che prendono quelle parole e le usano come si usa un paio di scarpe. Ci entrano dentro e ci vanno a passeggio. E scambiarsi le scarpe è difficile, figurarsi scambiarsi il cervello, lo sguardo, la cultura.
Allora quando il giornalista iracheno Muntazar Al Zeidi scaglia le proprie scarpe contro Bush sento gli esperti che interpretano il lancio come il segno di massimo disprezzo nella sua cultura perché i piedi sono la parte più impura del corpo e imporre il contatto con le suole è davvero un’offesa pesante. Tanto più che il lanciatore ha accompagnato il gesto chiamando “cane” il suo bersaglio. Capisco, ma ‘sta volta vorrei cercare di restarmene anch’io chiuso nella mia cultura. Chiuso come il padano incazzoso, il romano caciarone o il meridionale impaurito. Sicuramente quel giornalista non pensava a quello che ho pensato io, ma dalle mie parti le scarpe ricordano i morti. I defunti che si mettono in viaggio per l’altro mondo e tocca aiutarli a arrivarci sani e salvi. Allora ci stanno quelli che tolgono le scarpe perché renderebbero troppo pesanti i piedi a un poveretto che non ha più la forza dei viventi. Qualcuno gliele mette, ma evita i lacci che lo potrebbero legare al nostro mondo impedendogli di partire. Qualcun altro invece gli lega i piedi per paura che le gambe si aprano appena arrivato alla porta incastrandolon nell’anta che tradizionalmente rimane mezza chiusa. Certe volte addirittura il viaggio nell’al di là si fa da vivi per evitarsi fatiche in uno stato che non possiamo nemmeno immaginare. Allora le scarpe si gettano via e si cammina scalzi sui sassi per conoscere il dolore che si proverà attraversando il ponte trafitto di spade che porta dall’altra parte. Se fosse questo il significato della scarpa lanciata, se per ogni morto i nostri capi di stato dovessero ricevere una scarpata in testa…in aria volerebbero più scarpe che uccelli.

Ascanio Celestini
Fonte: l’Unità
17 dicembre 2008

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