Il dopo Karzai visto da Karzai


Emanuele Giordana


L’eredità politica che il presidente afgano vorrebbe lasciarsi alle spalle e i progetti per il futuro. Analisi.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
karzai2423764b

Nei giorni scorsi, lunedi 18 febbraio, dal palazzo presidenziale dove ormai Hamid Karzai conta alla rovescia il tempo che lo separa dalle presidenziali afgane del 5 aprile, è arrivato uno stop deciso all’ultima riforma del nuovo codice di procedura penale. Il disegno di legge, già approvato dai due rami del parlamento e cui manca solo la firma del presidente, è entrato nell’occhio del ciclone quando il testo è stato reso noto. Le organizzazioni afgane per i diritti di genere, e pilastri dei diritti umani come Human Rights Watch, hanno bollato la legge di oscurantismo e vero e proprio lasciapassare per gli abusi contro le donne, visto che uno dei capitoli sentenzia che i parenti degli imputati non possono essere testimoni a carico: dal momento che la maggior parte degli abusi di genere – dalla violenza al matrimonio forzato – avviene tra le pareti domestiche, se si escludono le testimonianze dei parenti, l’accusato non può che farla franca.

Il palazzo però ha fatto la voce grossa. Lo stesso palazzo che approvò anni fa, nonostante le polemiche, la famosa legge sul diritto di famiglia degli sciiti (che riconosceva di fatto lo stupro intra-familiare) e che, mesi addietro, non si è fatto per nulla sentire a favore del decreto legge sui diritti delle donne (Evaw), messo sotto accusa del parlamento che tuttora vuole emendarlo. Che il presidente abbia e abbia sempre avuto una politica ambigua, con un occhio agli alleati e uno al consenso interno anche delle frange più conservatrici, non è una novità. Ma questa volta è in gioco qualcosa di diverso. Karzai sta per lasciare il suo incarico dopo essere stato l’unico presidente dell’Afghanistan dalla caduta dei talebani, un uomo che, attraverso un interim e due mandati popolari, si configura come uno dei capi di Stato più longevi: ha trattato con Bush e con Obama, visto l’intera parabola di Ahmadinejad, stretto la mano di Musharraf e Nawaz Sharif, conosciuto premier e presidenti europei pochi dei quali sono sopravvissuti al primo mandato e nessuno dei quali ha goduto in sovrappiù del periodo di grazia che inizialmente a Karzai fu garantito dal vuoto lasciato dalla caduta dei talebani nel 2001.

Sulla cresta dell’onda da quasi tre lustri, ormai navigato politico internazionale, Karzai sembra essersi liberato dalla sindrome del “sindaco di Kabul” come per anni è stato chiamato. Ma forse soffre ora di qualche altro rovello che potrebbe spiegare le sue ultime clamorose azioni (o inazioni): dalla mancata firma dell’accordo di partenariato con gli Stati Uniti (Bsa o Bilateral Security Agreement) per finire con lo stop al codice di procedura penale, passando per la liberazione di una sessantina di prigionieri politici, considerati “pericolosi” dagli americani che li avevano in custodia e vittime dal comitato, voluto da Karzai, che ne ha deciso la controversa scarcerazione. Per non parlare della condanna per l’uccisione del comandante talebano Abdul Raquib. Cosa si nasconde dietro a un’apparente volubilità che alcuni attribuiscono a un azzardo del carattere se non addirittura a forme psicotiche? Quale disegno ha in mente il presidente per il futuro? Qual è il dopo-Karzai, immaginato da Karzai?

La domanda è nata soprattutto dopo che la Loya Jirga, l’assemblea tribale convocata dallo stesso Karzai in novembre, ha autorizzato la firma del Bsa. A quel punto, dopo i passaggi parlamentari di rito, il presidente avrebbe dovuto firmarlo ma la decisione di non farlo ha rimesso tutto nelle mani del prossimo capo dello Stato. La giustificazione sta nella parola “sovranità” poiché il presidente contesta il principio insito nel Bsa, non tanto di lasciare agli americani il controllo su 9 basi e l’autorità totale su quella di Bagram, ma di garantire l’immunità a tutto il personale Usa nel Paese. Karzai, che di fatto aveva già accettato il principio, si è poi impuntato sulla possibilità che gli americani possano compiere raid nelle abitazioni di privati cittadini senza autorizzazione afgana. Obama si è spinto a concedergli il punto (anche se con l’eccezione di specifici casi) ma il presidente non si è lasciato smuovere. Ha tenuto duro ed è certo che non firmerà. Cosa vuole ottenere? Le ipotesi sono tante.

Benefici personali: è la teoria avanzata da qualche giornalista. Il presidente farebbe il muso duro per ottenere carta verde e permesso di soggiorno negli Stati Uniti. Un’altra è che invece abbia semplicemente paura e, vada come vada, intenda rifugiarsi all’estero, se non in America, forse in Turchia, agendo dunque per mettersi al riparo dalle vendette talebane. Ipotesi poco convincenti.

Arma negoziale: è un ipotesi nata con le voci di colloqui segreti tra il presidente e gli uomini di mullah Omar. Irrigidire la posizione arrivando al punto di dichiarare «Se gli americani vogliono andarsene, vadano» può essere il tassello di una tattica di ammorbidimento dei talebani. Ma la partita negoziale con la guerriglia c’entra col Bsa fino a un certo punto. I talebani considerano comunque Karzai il “puppet” degli americani e non basta una dichiarazione a far loro cambiare idea. Quanto ai colloqui, probabilmente i canali sono sempre stati aperti ma è altrettanto noto che che non si sono ancora spalancati del tutto anche se qualche segnale c’è.

Sovranità nazionale ed eredità politica: è noto che Karzai ha letto con grande interesse il recente saggio di William Dalrymple su Shah Shuja (Return of a King: The Battle for Afghanistan), il monarca afgano che agli inizi del 1800, vinto in casa dai nemici che ne volevano il trono e riparato in India, fu poi reinsediato dal Raj britannico a capo del “forbidden Kingdom”. La sconfitta di Dost Muhammad e il reinsediamento di Shah Shuja avevano avuto però un costo pesante: la firma di due trattati di amicizia con gli odiati britannici che metteva la mordacchia alla politica estera dell’Afghanistan e che costarono la prima guerra anglo afgana. Oltre alla morte di Shah Shuja nel 1842. A questa si potrebbe aggiungere la “sindrome di Gandamak”, il luogo in cui nel 1879 fu firmato da Yaqub Khan un altro patto aglo-britannico che stabiliva «eterna pace e amicizia» tra il regno e l’Impero, ma soprattutto che la politica estera degli afgani avrebbe seguito i dettami del “Great Game”, ossessione britannica dell’epoca. Non solo Karzai non vuole essere associato a Shah Shuja o Yaqub Khan, ma ha giocato la partita così abilmente da riuscire a dimostrare che sono più gli americani ad avere bisogno del Bsa che non gli afgani, come hanno mostrato le pressioni esterne di questi mesi. L’ultima telefonata di Obama a Karzai, cui ha minacciato l’”opzione zero” se il Bsa non viene firmato (il ritiro cioè di tutti i soldati Usa e Nato alla fine del 2014), lo conferma. E’ una nuova verginità politica e l’incarnazione dello spirito nazionalpatriottico che piace anche all’uomo della strada, persino a chi non ha mai amato il presidente.

Il dopo dopo-Karzai: le ultime due ipotesi (negoziato ed eredità politica) si legano a un possibile calcolo sul futuro di cui si sono già fatte parecchie speculazioni assai prima che iniziasse la campagna elettorale. Molti osservatori paventavano un rinvio delle presidenziali, motivato da ragioni di sicurezza o accesso alle urne che avrebbe allungato i giochi di Karzai. Ma il presidente non ha mai dato segni consistenti di un simile calcolo che per altro lo avrebbe messo in cattiva luce. Più convincente l’ipotesi che Karzai stia preparandosi un ruolo di alto consigliere del futuro presidente (che potrebbe facilmente essere un “suo” uomo) per poi arare il terreno di un eventuale nuovo mandato alla scadenza dei quattro anni previsti dalla Costituzione. Nessuno infatti potrebbe impedirglielo e non è un caso se, tra chi corre, c’è anche suo fratello. In realtà Qayum Karzai non ha molte chance di farcela e sembra piuttosto uno specchietto per le allodole, tanto che ora Qayum e Zalmai Rassoul (altro candidato di Karzai) hanno deciso che uno dei due non correrà, travasando i suoi voti sull’altro. Poi c’è Ashraf Ghani, che gode dell’appoggio sicuro del voto delle regioni del Nord- Nordovest (grazie alla vicepresidenza affidata a Dostum) e dei favori della comunità internazionale. Karzai potrebbe traghettare verso di lui buona parte del voto pashtun, specie al secondo turno. Al netto di possibili brogli, è un gioco politico che ha una sua ragion d’essere.

Fonte: www.lettera22.it
4 marzo 2014

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento