Guerra aperta in Ucraina


Giuseppe Sarcina


Missile contro l’aereo delle truppe speciali: guerra aperta in Ucraina. Il jet abbattuto dai separatisti con un missile: 49 morti. Presa d’assalto l’ambasciata russa a Kiev.


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L’aeroporto di Dnepropetrovsk segna la linea di confine tra la pace e la guerra in Ucraina. Nella notte di sabato quaranta paracadutisti dell’esercito regolare salgono in formazione su un vecchio Il-76, dove attendono altri nove uomini dell’equipaggio. Qualche centinaio di metri più in là si sono appena concluse le operazioni di imbarco dei voli civili per Vienna, Istanbul, Kiev. Da qui, da questo scalo nel centro del Paese, porta girevole verso la capitale o verso l’Est in armi, partono tutti i raid pianificati dallo stato maggiore di Petro Poroshenko. Il neo presidente del Paese a parole raccomanda la distensione, nei fatti conduce un’offensiva silenziosa e costante. Il velivolo-cargo è atteso a Luhansk, una delle cittadine occupate dai separatisti, a pochi chilometri dai confini con la Russia. Ancora qualche metro dal manto rovinato della pista: l’atterraggio sembra cosa fatta. Un lampo, un boato terribile e il quadrigetto si disintegra: 49 nomi da aggiungere all’elenco delle vittime di questo conflitto alle porte dell’Unione europea. L’inaffidabilità di Mosca rende gli eventi semplici da spiegare, quando ormai sono già accaduti, ma difficili da prevedere. Poco prima dell’abbattimento dell’aereo, la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf aveva avvertito che «i separatisti dell’Est» avevano «acquisito dalla Russia armi pesanti e mezzi militari, inclusi carri armati e lanciarazzi». Ora, commentano gli esperti, è praticamente certo che l’Il-76 sia stato centrato da un missile terra-aria Igla. Ciò significa che in alcune città dell’Est la rivolta ha superato, in verità già da qualche settimana, la fase artigianale. Lungo la linea che attraversa il bacino industriale del Donbass, da Donetsk a Luhansk, il nuovo battaglione Vostok, formato da miliziani russi, ceceni, bielorussi, ha assunto il controllo delle operazioni. Tank, blindati, mitragliatrici, contraerea: un arsenale fornito da Mosca e manovrato da mani esperte, determinate e cinicamente professionali.

Questo nucleo esercita un forte richiamo anche per altri gruppi organizzati, come, per esempio, i cosacchi, una popolazione che vive nella regione a cavallo tra Russia e Ucraina. In un reportage pubblicato ieri dal Financial Times si racconta di una base creata da combattenti cosacchi, in gran parte addirittura veterani della guerra in Afghanistan (1979-1989), nel villaggio di Stanitsa Luhanskaya. Equipaggiati con kalashnikov e fucili di precisione, i cosacchi si sono schierati con i filorussi già da un paio di mesi, mettendo in campo antiche divise, una secolare reputazione guerriera e moderne tecniche da incursori. Ora controllano otto varchi lungo la frontiera, da cui sono passati i confratelli provenienti da Rostov sul Don e, probabilmente, i carri armati russi senza insegne, di cui ieri la Nato ha mostrato alcune immagini.
I missili di Luhansk, naturalmente, drammatizzano le ore di Kiev. Poroshenko ha dichiarato per oggi una giornata di lutto nazionale, poi ha riunito i generali e ha minacciato «una risposta adeguata» contro «i terroristi», come vengono chiamati i separatisti dell’Est che ricambiano con «fascisti» all’indirizzo della capitale. Riprendono spazio, almeno in piazza, i nazionalisti più radicali, sconfitti senza appello nelle presidenziali del 25 maggio. Ieri circa 300 manifestanti hanno assediato l’ambasciata di Mosca a Kiev, arrivando a strappare il tricolore russo. In parallelo, riferiscono i siti di informazione ucraini, i servizi di sicurezza avrebbero trovato nella notte scorsa una bomba proprio vicino al palazzo presidenziale.
La diplomazia, invece, continua a girare a vuoto. Ieri ennesima telefonata della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese François Hollande a Vladimir Putin. Nuovo appello per la «de-escalation», per bloccare «i rifornimenti di armi ai separatisti». Ma, almeno per ora, l’elezione di Poroshenko non è servita, come ci si attendeva e si sperava, a trovare una via d’uscita. Si spara a Sloviansk, da sei giorni senza acqua. Si spara nell’aeroporto di Donetsk, mentre la città piano piano si svuota. Si spara a Mariupol; si spara e si muore a Luhansk.
Fonte: www.dirittiglobali.it

15 giugno 2014

 

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