Gaza, i contadini raccontano l’occupazione


Silvia Todeschini


La vita quotidiana degli agricoltori palestinesi della Striscia privati della possibilita’ di poter raggiungere le loro terre tenute sotto tiro dall’esercito israeliano.


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Gaza, i contadini raccontano l'occupazione

“Chi semina buon grano, ha poi buon pane”, recita il proverbio. Ma per avere  un buon pane, cioè un buon raccolto, è necessario prima di tutto poter  accedere alla propria terra, è necessario che le forze di occupazione non lo impediscano sparandoti contro. È necessario poter irrigare, è necessario che  l’esercito israeliano non bombardi il pozzo che usi per raccogliere l’acqua.  È necessario, inoltre, che non arrivino bulldozer, scortati da carri armati, a distruggere quanto è stato seminato.
Jaber è magro e non molto alto, ha la carnagione abbronzata, zigomi  sporgenti e mani callose. Parla poco, è paziente Jaber, ma anche molto deciso.  Viene da una famiglia di agricoltori, ha 45 anni, e da quando ne aveva sei aiutava suo padre a prendersi cura dei mandorli. Il terreno che coltiva si  trova tra i 300 e i 500 metri dal confine, e lavora nell’incertezza di poter vedere i frutti della sua terra. Cinque anni fa le forze di occupazione hanno dato fuoco al suo campo di grano al momento del raccolto, mandando in fumo il lavoro e gli investimenti di un anno. I pompieri non sono potuti  arrivare in tempo, perchè, a causa della vicinanza del campo alla no-go zone  unilateralmente dichiarata dalle forze di occupazione, necessitavano del  coordinamento col l’esercito israeliano, e questo coordinamento non è arrivato.  Circa un anno fa i bulldozer hanno distrutto buona parte della  sua casa, che si trovava a circa 400 metri dal confine, il piccolo  allevamento di galline, 40 dunam di grano, 3 dunam di ulivi, e 3 dunam di verdure. Racconta che se non fosse uscito in tempo dalla sua casa con la sua famiglia la avrebbero demolita con loro dentro. Oggi Jaber coltiva  cipolle nel terreno dove c’era la sua vecchia abitazione.
Israele ha dichiarato unilateralmente “no-go zone” la fascia di terreno che  corre vicino al confine fino ad una distanza di 300 metri. Quest’area è completamente inaccessibile per i palestinesi, anche per chi lì aveva le sue terre e le coltivava. Ma secondo un rapporto ONU l’area in cui l’accesso è  “ad alto rischio” arriva fino ad un chilometro e mezzo, talvolta due chilometri di distanza dal confine. Il 35% delle terre coltivabili di Gaza si trovano in questa zona “ad alto rischio”, e per i contadini è difficile o impossibile riuscire a raccogliere frutti dai loro terreni situati in quest’area. La politica israeliana in proposito ha tutto l’aspetto di voler semplicemente impedire ai contadini di coltivare la loro terra, e di poter raggiungere una qualche forma di autosufficienza alimentare.
Sempre Jaber racconta: “Prima coltivavamo mandorle, poi Israele ha iniziato a riempire i nostri mercati di mandorle, facendo artificialmente calarne il prezzo, così chi coltivava i mandorli ha convertito le coltivazioni in qualcos’altro, poi hanno ritirato le loro mandorle ed il prezzo è di nuovo aumentato, ma noi non avevamo più mandorli. La stessa cosa è successa con le arance. Durante la prima intifada, chiudendo i confini ci hanno impedito di esportare ortaggi, ed al tempo stesso hanno impedito ai fertilizzanti di entrare…e da allora le cose sono andate sempre peggio.”
Ibrahim vive a Khuza’a, al sud della striscia. La sua casa è stata distrutta durante la guerra, e non può accedere al terreno che coltiva. Ha  un trattore per arare, ma anche con questo c’è poco lavoro, infatti dove vive lui la maggior parte dei terreni coltivabili sono a poche centinaia di metri dal confine, e i contadini non vi possono accedere. Anche Yusef è di Khuza’a, ed ha due terreni, uno di 8 dunam e l’altro di 24, li coltivava entrambi a grano per fare il pane. Il terreno di 8 dunam non è più accessibile, si trova a 200 metri dal confine, mentre l’altro, a 300 mettri dal confine, non viene coltivato da 2 anni perchè quando prova a recarvisi le forze di occupazione iniziano a sparare.
Abu Taima, anch’egli al sud, racconta come all’inizio le forze di occupazione abbiano distrutto gli aranci, e poi non abbiano permesso la coltivazione nemmeno di grano ed altri vegetali, sebbene molto più bassi degli alberi. Nel 2008, nel 2009 e nel 2010 ha coltivato la sua terra, ma i bulldozer israeliani la hanno distrutta prima del raccolto. Sparano ai contadini che vanno a coltivare, e poi sradicano le coltivazioni. Sparano ed uccidono anche il bestiame, le pecore portate a pascolare, l’ultima pecora uccisa si trovava a 700 metri dal confine. I soldati sionisti sparano quando
c’è nebbia, senza vedere chiaramente cosa colpiscono. “Avevo 50 dunam di terra, ora non si possono più coltivare. C’erano dieci persone che lavoravano per me, e ciascuna di esse aveva una famiglia di dieci persone.
Oggi tutti questi lavoratori sono disoccupati, e dipendono da programmi assistenziali o aiuti umanitari.”
Sono numerosissimi i terreni che per almeno un anno non hanno portato frutto a causa della contaminazione da fosforo bianco usato durante l’invasione israeliana “piombo fuso”: ulivi dalla foglie distrutte, terreni contaminati che davano frutti avvelenati. Sono state avvelenate così le falde acquifere, sono stati bombardati pozzi, e l’accesso all’acqua è diventato uno dei principali problemi dei contadini. In particolare nell’area di El Kharrara un pozzo situato a più di 2 km dal confine e che forniva acqua potabile e per l’irrigazione di 700 dunam di terra da cui dipendono 5000 persone, è stato bombardato durante piombo fuso e, poiché solo poche famiglie possono permettersi il trasporto nelle cisterne di grosse quantità di acqua per irrigare, questo ha causato fortissimi problemi per l’agricoltura. I fori dei proiettili nei teli che costituiscono le serre hanno permesso ai parassiti di entrare, e a causa dell’assedio illegale non è possibile importare pesticidi e fertilizzanti. Nell’area di Faraheen i soldati sparano ai contadini, e le mine rimaste sul territorio
impediscono ai lavoratori di coltivarlo. Inoltre nelle frequenti incursioni vengono colpite solo o soprattutto le piante pronte a dare frutto, che hanno richiesto fatica e denaro per arrivare a maturazione: viene per esempio lasciato in vita un ulivo di di tre anni e sradicato uno di sei.
In un territorio già stremato da un assedio che non permette l’importazione di molti beni essenziali, che crea povertà e disoccupazione in una delle aree più popolate del mondo, questa esplicita politica di attacco ai contadini e all’agricoltura in generale è un’ulteriore crimine che si va a sommare alla lunghissima lista di cui Israele è colpevole. L’UNRWA, l’ente dell’ONU per i rifugiati, provvede per alcune famiglie con donazioni di cibo trimestrali, ma è estremamente cinico fornire assistenzialismo nei casi in cui forze di occupazione, contro ogni accordo internazionale, impediscono ad un popolo di coltivare il suo pane e provvedere al suo stesso sostentamento.
Saber racconta: “Era calmo e tranquillo nell’area vicino al confine, sette del mattino, venerdì. Mi sono recato col mio trattore a 300 – 350 metri dal confine. Volevo coltivare perchè era tutto tranquillo: se avessi sentito degli spari  avrei avuto paura e non ci sarei mai andato. Quando ho raggiunto la mia terra, hanno cominciato a sparare, hanno distrutto il trattore. Il referto medico dice che questo mi ha causato problemi psicologici e psicosomatici: panico a livello mentale e tensione a livello fisico, battito cardiaco alterato, ed ho iniziato a prendere medicine. È successo nel dicembre 2007.” “Ovvio che sapevano che ero un contadino! Indossavo indumenti da lavoro, guidavo un trattore. Un trattore per arare, non un carro armato: non lo riconoscono forse quando lo vedono? Hanno binocoli con cui ci possono monitorare da decine di chilometri di distanza, mi hanno riconosciuto. Sapevano che ero un contadino, e la prova è che dopo hanno chiesto scusa sostenendo fosse un incidente. Possono contarmi i peli della barba, come potevano non sapere che sono un contadino? No, sapevano che ero un contadino, e mi hanno sparato di proposito, perché sono un contadino e non vogliono che io stia qui nella mia terra.”

Fonte: www.nena-news.com

17 febbraio 2011

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