Fuoco su Abu Mazen, Netanyahu alla resa dei conti


Michele Giorgio, Il Manifesto


Nuovi violenti scontri sono divampati nell’area delle moschee e in altri punti della città. Gerusalemme è il ring dove si sfidano israeliani e palestinesi.


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epa04268673 An Israeli riot policeman looks over as Palestinians prayed in the street of the neighborhood of Ras al-Amud, with the Dome of the Rock on the Haram el-Sharif (The Noble Sanctuary) behind, in East Jerusalem, 20 June 2014. Israeli security forces limited attendance to Friday prayers in al-Aqsa Mosque to men over 50 in the belief clashes would start due to increased tensions and clashes since three Israeli teenagers went missing on June 12. Two Palestinians were killed in clashes in the West Bank early today.  EPA/JIM HOLLANDER

 

Gerusalemme è il ring dove si sfidano israeliani e palestinesi. Sono durissime le accuse che il premier Netanyahu e i suoi ministri hanno rivolto ieri al presidente Abu Mazen, dopo l’attentato compiuto da un palestinese che, alla guida di un’auto, nel settore arabo occupato di Gerusalemme, si è lanciato contro alcuni passanti israeliani uccidendo un ufficiale della guardia di frontiera e ferendo una dozzina di persone. É avvenuto tutto in due tempi: il palestinese, Ibrahim al Akkari (fratello di un ex detenuto di Hamas) ha prima travolto passanti accanto a una fermata del tram ai margini di una zona abitata da ebrei ortodossi. Poi, a poche centinaia di metri, ha investito altri israeliani. Infine è sceso dall’auto ed ha percosso con una sbarra alcune delle persone presenti. A questo punto è stato colpito a morte da un poliziotto. Subito dopo Gerusalemme è stata blindata dalla polizia con gruppi di decine di israeliani, giunti nella zona dell’attacco, che scandivano «Morte agli arabi». Nel pomeriggio sono riprese le proteste palestinesi, con scontri tra dimostranti e polizia alla Porta di Damasco, all’interno delle mura della città vecchia, nei quartieri di Issawiyeh (sigillato dalla polizia), Wadi al Joz e Shuffat dove viveva Ibrahim al Akkari. Per i suoi funerali, previsti la scorsa notte, la polizia ha imposto la presenza di sole 35 persone.

L’attacco – rivendicato dall’ala militare del movimento islamico Hamas – è giunto dopo i violenti scontri, con numerosi palestinesi feriti dalla polizia, divampati ieri mattina sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme dopo il nuovo tentativo di israeliani dell’estrema destra religiosa di entrare sul sito per pregare per la salute del rabbino ultranazionalista Yehuda Glick, ferito da un presunto attentatore palestinese (poi ucciso dalla polizia). Tentativo al quale la Giordania, custode dei luoghi sacri musulmani a Gerusalemme, ha risposto richiamando il proprio ambasciatore in Israele per protesta contro il comportamento del governo Netanyahu.

Nei giorni scorsi si era parlato di un incontro segreto ad Amman tra re Abdallah e il primo ministro israeliano Netanyahu che avrebbe garantito una linea volta a placare la tensione. Invece non è cambiato nulla. D’altronde è difficile credere che un governo composto in prevalenza da forze di destra, ideologicamente fondate sul nazionalismo religioso più militante, possa adottare misure di “contenimento” nei confronti di quei gruppi e di quei parlamentari, come Moshe Feiglin (Likud), che invocano libero accesso per gli ebrei sul Monte del Tempio (la Spianata delle moschee) e un cambiamento radicale dello status di quell’area sacra. Chiedono di strappare il controllo del sito al Waqf islamico per metterlo sotto la piena autorità di Israele, in vista, affermano i più fanatici, della ricostruzione del Tempio. Per Netanyahu la colpa è dei palestinesi e del loro presidente. «L’ attentato è una conseguenza diretta delle parole di Abu Mazen e dei suoi partner di Hamas», ha tuonato, addossando al leader dell’Anp la responsabilità di aver preso parte ad «un incitamento crescente» contro Israele, in particolare quando ha fatto appello ad impedire in tutti i modi «le profanazioni della Moschea di al-Aqsa».

Per i dirigenti israeliani le provocazioni dei gruppi ultranazionalisti non creano tensione. L’annuncio continuo di progetti di espansione delle colonie ebraiche a Gerusalemme e in Cisgiordania – criticato ieri da Federica Mogherini – non genera rabbia e frustrazione. Il problema sono le reazioni palestinesi. Secondo il ministro Naftali Bennett e capo del partito «Focolare ebraico», braccio politico del movimento dei coloni, sarebbe lo stesso presidente palestinese «ad essere alla guida delle macchine della morte a Gerusalemme. I terroristi sono solo i suoi emissari». Un appello a fermare «l’incitamento di Abu Mazen alla violenza» è stato lanciato al mondo intero dal ministro degli esteri Lieberman che, in un comunicato, ha riportato il testo della lettera di condoglianze indirizzata dal leader dell’Anp alla famiglia di Muataz Hijazi, il palestinese di Gerusalemme ucciso dalla polizia e accusato dalle autorià israeliane di essere il responsabile del ferimento del rabbino Glick.

Considerare questi attacchi come schermaglie tra israeliani e Anp in corso da mesi, da quando è fallita la mediazione del segretario di stato John Kerry e Gaza è stata teatro della terza offensiva militare israeliana in poco più di cinque anni, potrebbe rivelarsi un errore di valutazione. I palestinesi vedono nelle accuse israeliane il tentativo di mettere alle corde Abu Mazen, di dipingerlo come un leader non credibile, fautore dello scontro armato (sempre rifiutato dal presidente dell’Anp). E non è da escludere che Israele possa procedere alla rioccupazione delle città autonome palestinesi, come fece nel 2002, se in futuro Abu Mazen annuncerà, come gli chiedono tutti i palestinesi, la fine della cooperazione di sicurezza con i servizi segreti israeliani e smetterà di fare arrestare militanti e simpatizzanti dell’opposizione, laica e islamica, come invece continua a fare anche in questi giorni.Nena News

Fonte:  http://nena-news.it

6 novembre 2014

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