Eritrea: un paese militarizzato


Piergiorgio Cattani - unimondo.org


È la prima volta che avveniva uno scontro militare all’interno dei confini eritrei da quando, nel 2002, un arbitrato internazionale aveva sancito che quella particolare zona contesa spettava all’Eritrea.


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La condizione dell’Eritrea di oggi si coglie in due situazioni a prima vista molto distanti tra di loro: da un lato ecco la descrizione di un campo profughi in pieno deserto che la testimonianza del missionario don Depretis ci ha fatto conoscere in tutta la sua drammaticità; dall’altro, dalla Londra multicolore delle olimpiadi, ci giunge la notizia della richiesta di asilo politico in Gran Bretagna da parte del porta bandiera della delegazione eritrea ai Giochi, il diciottenne mezzofondista Ghebresilasie. Ha seguito il suo gesto anche l’unica donna dei 10 atleti giunti a Londra dal paese del Corno d’Africa, tra i più chiusi, autoritari e poveri del mondo. Nel 2009 l’intera squadra di calcio dell’Eritrea si è dileguata durante una trasferta in Kenya. Per molti cittadini eritrei, poco importa siano sportivi, studenti o disperati in cerca di futuro, l’imperativo è quello di fuggire in qualche modo a un regime basato essenzialmente sul servizio militare “a vita” per i maschi e sul divieto della libera circolazione delle persone. Si parla poco di Eritrea nei nostri notiziari, eppure nella capitale Asmara si parla ancora italiano e le vestigia della colonizzazione fascista ampiamente visibili. Non è praticamente apparsa nei telegiornali la notizia, risalente al maggio scorso, di un riaccendersi della tensione tra Eritrea ed Etiopia, con l’esercito di quest’ultima che ha sconfinato in territorio nemico ufficialmente per “colpire i terroristi” e le loro basi. È la prima volta che avveniva uno scontro militare all’interno dei confini eritrei da quando, nel 2002, un arbitrato internazionale, stabilito dall’ONU all’indomani dell’armistizio tra le due parti, aveva sancito che quella particolare zona contesa spettava all’Eritrea. L’Etiopia però, pur avendo sottoscritto l’accordo non lo ha mai applicato concretamente e la linea del fronte è rimasta incandescente. La commissione che sorveglia i confini tra i due paesi (EEBC) ha criticato l’azione etiopica. Il regime di Isaias Afewerki non ha risposto all’incursione dell’avversario. Questo non per un atto di buona volontà in vista di un tentativo di pacificazione, ma perché il paese è davvero allo stremo. Ciò non ha impedito un’ulteriore militarizzazione dell’Eritrea che sembra sorreggersi solamente grazie a un perpetuo clima di mobilitazione generale e di allerta per un possibile riaccendersi del conflitto. Intanto soldati e agenti armati pattugliano le città dove la gente vive nella paura di una guerra esterna ma soprattutto della repressione interna. Qualcosa però si sta muovendo in uno scacchiere che da anni non fa altro che incancrenirsi tra tensioni, carestie e il terribile conflitto della Somalia. Come dimostra un convincente e informatissimo articolo dell’analista americano Gregory Copley, alcuni fattori contingenti e strutturali possono cambiare velocemente la situazione. Innanzitutto lo stato di salute del primo ministro etiopico Meles Zenawi. Ne avevamo già parlato qualche settimana fa: da allora il leader è letteralmente sparito dalla scena. C’è chi dice che si trova in un ospedale belga per una gravissima forma di tumore celebrale, chi afferma che il presidente sia a Dubai, chi in Etiopia stessa; le voci serie o sarcastiche di una sua morte si affollano. Desta più di un sospetto che un personaggio aduso a una forte presenza sui media e a toni decisi e perentori sia di colpo andato nell’ombra. Ormai si parla di una sua possibile sostituzione, un cambio di guardia che genererebbe sicuramente sommovimenti di cui non si può prevedere l’esito. Indiscrezioni analoghe, per altro di impossibile conferma, sono rimbalzate anche per il presidente eritreo Afewerki che sembra condividere ancora una volta la sorte dell’amico-nemico Zenawi. Intanto un rapporto ONU “circoscrive” il sostegno dell’Eritrea ai terroristi islamici al Shaab, una accusa che aveva fatto scattare le sanzioni verso il paese, un provvedimento che per ora rimane in piedi. Anche questa notizia però segna una possibile svolta dovuta probabilmente a un indebolimento interno per Afewerki. È il quadro regionale tuttavia a favorire una transizione. Mentre le rotte del petrolio verso Cina e Stati Uniti si stanno spostando dal mar Rosso all’Oceano Indiano e Pacifico, come dimostrano le tensioni nei mari del sudest asiatico, determinando una diminuzione dell’importanza strategica dell’Etiopia, le potenze cercano di gestire la situazione tra i due Sudan (e di accaparrarsi le risorse petrolifere): pure la Turchia entra nel gioco sostenendo cinicamente il dittatore sudanese Bashir. La gente comune intanto soffre e spera in una riconciliazione tra Etiopia ed Eritrea. Occorrerebbe però immaginare scenari nuovi, in quanto il mosaico etnico e religioso etiopico rischia di andare in pezzi con la fine di Zenawi. Le tensioni regionali in Etiopia possono favorire movimenti indipendentisti che sono da decenni una spina nel fianco del governo centrale. Sarebbe forse possibile una soluzione “federalista” che possa incorporare tutto l’insieme dello storico impero etiope (compresa quindi l’Eritrea), senza i confini artificiali che hanno portato a lunghe e sanguinose guerre.

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