Eritrea, è ancora grande fuga


Avvenire


Endabaguna, uno dei centri profughi in Etiopia, oggi conta più di 6mila persone. Qui sono stati individuati gli 83 profughi che arriveranno, a gennaio, con i corridoi umanitari Cei


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Il centro di smistamento è pieno anche oggi. Sabato pomeriggio di dicembre nel paesaggio bruciato di Endabaguna, luogo di raccolta dei richiedenti asilo eritrei nel cuore del Tigray, appena oltre il confine tra Eritrea ed Etiopia riaperto l’11 settembre dopo 20 anni.

È stagione secca, quindi di esodo continuo e inarrestabile nonostante la pace e lo sforzo rapido e stupefacente dei governi del Corno d’Africa di creare un’area stabile per agevolare e diffondere lo sviluppo dell’Etiopia, secondo Paese africano più popoloso, avviata secondo il Fondo monetario internazionale a diventare l’economia mondiale a più rapida crescita per il 2018. Per l’Acnur dopo la pace non è ancora cambiato nulla in Eritrea, non c’è democrazia e permane il servizio civile illimitato, quindi chi arriva ha diritto di chiedere e ottenere asilo.

Al confine tra i due Paesi si misura la menzogna di chi in Europa crede che con la pace sia arrivato il benessere in Eritrea (è dal 2001 che non si spara un colpo) e che questo possa fermare gli enormi flussi migratori del piccolo Paese. Non si sa quanti siano arrivati finora senza registrarsi come profughi. Ma molti alberghi e alloggi a Macallé, Adigrat e Axum sono affittati da eritrei che aspettano di vedere se le cose cambiano in patria.

A Endabaguna trovo chi non crede al futuro nell’ex colonia primigenia né a transizioni e chiede asilo per raggiungere i parenti all’estero. Tra i padiglioni, soprattutto giovani e adolescenti, qualche adulto, donne con bambini e minori non accompagnati (sono un terzo). Persino nonne con nipotini. Approfittano della libertà di movimento per fuggire.

Il giorno prima ne sono arrivati 292 trasportati dagli autobus dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, oggi sono invece più di 500. Secondo i responsabili dell’Arra, l’agenzia statale etiopica per i rifugiati, la media giornaliera di arrivi di eritrei nei tre mesi successivi alla riapertura dei confini va da un minimo di 200 a un massimo di 500 unità.

Chiedo se vi sono anche finti profughi, etiopi del Tigray che si spacciano per eritrei, tesi del governo dell’Asmara (per il quale il 30% dei profughi è in realtà di nazionalità etiope) prontamente ripresa da sovranisti e fascisti nostrani per poter rimpatriare i profughi e dal cantante Jovanotti, il quale in tv è arrivato addirittura a dichiarare che l’80% degli eritrei è etiope. Il funzionario chiarisce che in passato ci sono state infiltrazioni, anche se meno del 30%, ma ora il controllo dell’immigrazione di Addis Abeba è stringente e punta su accertamenti anagrafici e un questionario accurato per i minori. Diversi finti profughi adulti sono stati arrestati.

Nei campi profughi in Etiopia ci sono circa 180mila eritrei. In fila per la registrazione ci sono i bambini che scappano dalle campagne. Non parlano inglese, tra loro anche 11 e 12enni fuggiti senza dire nulla ai familiari magari per raggiungere i genitori già all’estero in un’odissea che a quell’età pare un’avventura. E diverse ragazze di città della classe media asmarina. «Da quando hanno aperto i confini fuggire è facile – spiega una di loro, 18 anni, di Gheza Banda, il vecchio quartiere indigeno della capitale, che chiede l’anonimato per proteggere i parenti in patria – e chi ha qualcuno all’estero chiede asilo in Etiopia per fare poi i ricongiungimenti. La pace con l’Etiopia non ha cambiato le nostre vite, non crediamo che cambierà nulla con questo regime».

In fila c’è un medico dell’ospedale Orotta di Asmara. «Sono un pediatra – racconta – e guadagno circa 100 dollari al mese. Non posso dare da mangiare ai miei figli. La pace non ha portato libertà né benessere. Ho deciso di passare in Etiopia dove guadagno di più. E se riesco a venire ricollocato in Nord America o in Europa posso guadagnare bene». Seduta attende il suo turno una nonna di circa 70 anni in abito bianco tradizionale con tre nipotini. Vengono da un villaggio alle porte di Asmara. «Vogliamo ricongiungerci con mia figlia, rifugiata in Germania». Sa che ci vorrà tempo. «Lei in Eritrea non sarebbe tornata, non vede prospettive. I suoi figli devono stare con lei».

A Endabaguna si resta 48 ore. Il medico e le asmarine possono permettersi di pagarsi un albergo a Scirè, li portano in bus. Gli altri dormono nei cameroni del centro, spesso per terra. Tra poco verranno separati e smistati nei campi profughi o ad Addis Abeba. Seguendo la strada lungo il fiume Tekezé, 608 chilometri e il canyon più profondo del continente africano che arriva al confine con Eritrea e Sudan si giunge a Mai Aini, uno dei campi Onu più affollati del Tigray, che da molti anni accoglie almeno12 mila rifugiati eritrei. Qui Caritas italiana, insieme alla Ong Gandhi Charity guidata dalla volontaria italo-eritrea Alganesh Fessaha – per i profughi ‘ doctor Alganesh’ – ha scelto parte degli 87 profughi dei corridoi umanitari che arriveranno in parrocchie e diocesi italiane il prossimo gennaio per giungere al totale di 500 previsti dall’accordo stipulato dalla Cei con il governo italiano.

Nelle strade polverose di Mai Aini l’Acnur ha aperto una scuola e finanzia piccole attività commerciali. Chi può arrotonda le razioni mensili di cereali dell’Acnur coltivando piccoli appezzamenti. Gandhi ha aperto un programma che offre un pasto al giorno a 950 bambini delle scuole e ai più anziani. Ma fuori non si può lavorare, solo studiare, e tutti questi insabbiati sognano la fuga. Di notte molti vanno verso il Sudan a rischio della vita, seguendo le sponde del Tekezè infestato dai coccodrilli. Le costruzioni sono in muratura, ma il campo si è esteso con baracche in lamiera per accogliere centinaia di nuovi arrivi dopo l’apertura dei confini. Da un mese ci vive con la figlioletta di 4 anni Eden, 23 anni. Soffre di gozzo e il marito è insabbiato in Egitto. «Ho deciso di chiedere asilo in Etiopia per dare da mangiare a mia figlia e curarmi. Vengo da Mendefera dove la povertà è la stessa di prima».

A Scirè incontro altri profughi di Shimelba, campo di 6.000 persone. Sono stati selezionati dalla Caritas, tra oltre un mese cambieranno vita in Italia. Ephrem ha 27 anni e lo sguardo triste, è arrivato in Etiopia dal Sinai nel 2012, salvato da ‘ doctor Alganesh’ dalle galere egiziane dove era stato rinchiuso. «Avevo disertato con mia sorella, volevamo andare in Sudan e lì ci hanno catturato i nomadi Rashaida per venderci ai predoni beduini del Sinai. Avevano chiesto un riscatto di 35 mila dollari ai nostri genitori, per chiedere i soldi mi torturavano con scariche elettriche e plastica fusa sulla schiena. Quando hanno avuto i soldi ci hanno liberati, ma siamo stati arrestati dagli egiziani». In Italia vuole imparare la lingua e un mestiere in fretta. La sorella vive negli Usa. Tra coloro che arriveranno c’è Hadish, 23 anni, fuggito perché voleva studiare matematica dopo le superiori, ma il governo glielo ha negato. «Così dopo l’addestramento ho disertato, ma mi hanno preso al confine con il Sudan e incarcerato 8 mesi. Mi hanno torturato per sapere dove erano i miei compagni di scuola fuggiti con me».

Poi Hadish ha studiato da infermiere ed è arrivato in Etiopia 4 anni fa, ora conta di specializzarsi in Italia. Soprattutto vuole rivedere i suoi compagni in Europa, la generazione perduta dell’Eritrea – tra i 25 e i 40 anni – che ha pagato al sogno della libertà un tributo di vite umane elevato nei deserti, nel Mediterraneo e nelle galere dei trafficanti.

NEL CUORE DELL’ASMARA DOPO LA PACE

Per la prima volta, un giornalista italiano, inviato di Avvenire, entra con regolare visto all’Asmara. Lo abbiamo raccontato nel reportage dello scorso 11 dicembre. La capitale ‘fantasma’ del Paese dove c’è ancora molto di italiano e dove è forte il nuovo desiderio di riscatto, dopo che l’8 luglio scorso Abiy Ahmed, nuovo primo ministro etiope, e il presidente eritreo Isaias Afwerki hanno firmato una dichiarazione per porre fine allo stato di guerra tra i due Paesi che persisteva dal 1998. Il vero e proprio trattato è stato siglato a settembre. Gli accordi prevedono la riapertura delle rispettive ambasciate, il ripristino dei collegamenti tra le due nazioni ma soprattutto l’apertura dei confini tra i due Paesi al passaggio libero delle persone.

Paolo Lambruschi, inviato a Scirè (Etiopia) domenica 16 dicembre 2018

Avvenire

 

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