Diario africano


Roberto Zichittella


Secondo giorno a Nairobi. Uno spaccato di vita quotidiana in una delle grandi bidonville del Kenya, dove il prevedibile è l’onnipresente povertà estrema, l’imprevedibile è dietro ogni angolo.


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La giornata comincia sotto un cielo livido, percorso da nuvoloni grigi. Non fa troppo caldo. Per fortuna non piove, altrimenti questo sarebbe il racconto di una mattina passata in mezzo al fango.

Le strade della zona del mercato di Dagoretti, vasta area periferica nella zona occidentale di Nairobi, sono in terra battuta e piene di buche e dossi. C’è polvere e la confusione che ti aspetti dai mercati delle grandi metropoli africane.

Ma questo è un mercato povero, di poveri e per poveri. Non è un posto per turisti e souvenir. Nella parte del mercato alimentare si trovano cipolle rosse, patate, cavoli, carote, banane. In molti casi gli ortaggi e la frutta sono semplicemente appoggiati per terra, sorvegliati da grasse donne che stanno accovacciate per terra o sedute su uno sgabello.

Il mercato ospita anche il più grande mattatoio di Nairobi.
Per entrarci, io, il fotografo Paolo Siccardi, Alfred e Baptiste (i due colleghi della rivista francese Paris Match) dobbiamo indossare dei camici bianchi, simili a quelli dei medici. A dire il vero, i camici non sono proprio bianchi. Sul mio ci sono ancora aloni di sangue. Ci chiedono se vogliamo anche indossare gli stivali, ma per fortuna non serve, perché gran parte del sangue dei bovini e degli ovini macellati è stato già lavato via nelle prime ore del mattino.

Ogni giorno qui vengono macellati fra i 700 e i mille capi di bestiame. Mi colpisce vedere in strada un lavoratore del macello con in mano, sorretta per le corna, una grossa testa di capra, già spellata, con i bulbi oculari che sembrano smisurati. Sopra il mattatoio volteggiano gli avvoltoi, bianchi e neri, pronti a banchettare con i resti della quotidiana mattanza. Per loro ogni mattina è una festa.

A poca distanza dal mattatoio incontriamo un gruppo di pastori Masai, arrivati qui insieme alle loro mucche. Ci guardano, sorridono, lasciano scattare qualche foto. Questi uomini dall’età indefinita  hanno tutti i lobi delle orecchie perforati e allungati, come è tradizione per questo popolo degli altipiani, allevatori transumanti. La visita al mercato è piena di incontri e sorprese.

Un tizio ha collegato la sua chitarra elettrica a un altoparlante e comincia a cantare davanti a un microfono. Ci sa fare, canta bene e lancia attorno sguardi ammiccanti. Sembra uno abituato a esibirsi in pubblico. Ogni tanto dice “Alleluia” e quando ha finito di cantare comincia a predicare con aria ispirata. Nessuna sorpresa in una zona dove la presenza di chiese, congregazioni e scuole religiose è fittissima. Stanno tutte a poche centinaia di metri l’una dall’altra, gestite in gran parte da chiese protestanti. A volte anche una baracca di lamiera si presenta come chiesa. Nelle insegne è un continuo ripetersi delle stesse parole: Church, Lord, Jesus, God, Christian.

Resta da chiedersi quali sono i frutti di questa massiccia presenza. Si fanno utili opere assistenziali o ci si limita a un proselitismo senza scrupoli? È noto, ad esempio, che in Uganda le severissime pene contro gli omosessuali (è previsto anche l’ergastolo) sono state ispirate dall’ala più estrema e intollerante di alcune chiese protestanti.

Girando per Dagoretti si vedono cose assurde. Come l’insegna di un barbiere “La Dolenza Barbers”, che promette servizi di taglio, manicure, pedicure e rasatura “with a style” offrendo però, insieme al servizio “di stile”, anche la vista su una puzzolente discarica a cielo aperto. “Questo è il cinema”, mi dice a un certo punto Samuel, il ragazzo che ci accompagna. Mi guardo intorno e non capisco. Samuel indica una baracca di lamiera davanti alla quale un bambino vende noccioline e caramelle. Non è uno scherzo. C’è pure l’insegna: Jahmrock Cinema. Su una lavagna sono indicati pure i titoli della programmazione. Stanno trasmettendo Shanghai Knights, un film orientale di kung fu o roba simile.

“Entrate prego”, dice Sam, il proprietario. Sono curioso. Nell’interno buio ci sono delle panche in legno sulle quali sono seduti quattro uomini, uno con indosso il camice  chiazzato di sangue degli addetti al macello. Di fronte a questo pubblico però non c’è uno schermo, ma un ripiano sul quale è appoggiato un televisore. Questo sarebbe il cinema, ma a Dagoretti ci si deve accontentare.

Samuel mi spiega che la sala ogni tanto viene utilizzata per mostrare video e film ai bambini assistiti dal programma “Children in Need”, curato da Amref  e dedicato al recupero dei ragazzi di strada. Di ragazzi, soli o in gruppo, ne incontriamo diversi a Dagoretti. Alcuni vispi e socievoli, che ti salutano battendo le nocche della loro mano contro la tua. Uno di loro, 16 anni dichiarati, chiede in buon inglese da dove vengo e che squadra tifo. Lui risponde che tifa per la Nazionale italiana e per il Manchester. Altri bimbi, invece, si aggirano con lo sguardo perso, forse inebetiti dalle sniffate di colla (una piaga che colpisce molti minori di Dagoretti). Fa impressione un bambino che si aggira da solo, con l’aria triste e smarrita, avvolto in una tunica scura con il cappuccio che gli copre il capo, tanto da sembrare assurdamente un piccolo penitente del medioevo. A vederlo si prova una stretta al cuore e ancora adesso, a distanza di ore, mi chiedo come si chiama, da dove arriva, chi lo aspetta a casa (se mai ha una casa), che futuro lo aspetta.

Fonte: www.famigliacristiana.it
25 febbraio 2014

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