Da Cesena a Kabul passando per Bagdad


Piero Piraccini


Su L’Unità, vista la perfezione tecnologia mostrata dagli USA per preparare la guerra all’Iraq – dalle armi più sofisticate a sacchi di plastica neri necessari per riportare in patria i corpi dei caduti – Pietro Ingrao si era chiesto: “Perché le istituzioni locali, perché i Comuni, perché le Province non mettono parte delle loro energie […]


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Su L’Unità, vista la perfezione tecnologia mostrata dagli USA per preparare la guerra all’Iraq – dalle armi più sofisticate a sacchi di plastica neri necessari per riportare in patria i corpi dei caduti – Pietro Ingrao si era chiesto: “Perché le istituzioni locali, perché i Comuni, perché le Province non mettono parte delle loro energie per costruire la Pace”?

Domanda angosciosa giacché l’Italia, quella al governo per intenderci, ma anche quella all’opposizione rappresentata dal suo partito (il PDS) aveva sposato la tesi risibile che le bombe sull’Iraq non costituivano un atto di guerra ma un’opera di polizia internazionale (solo 9 su 136 senatori PDS si opposero). Era il 1991, appena dopo quel magnifico ’89 che – scrisse Pintor – mandava una gran puzza di guerra.

Pochi anni prima la suprema Corte aveva emesso una sentenza innovativa: l’Italia che nella Costituzione ripudia la guerra altro non è che l’insieme delle sue articolazioni democratiche: dal Parlamento, la più grande, al Comune, la più piccola.

D’altronde il costituzionalista Calamandrei aveva detto che “Questo progetto di Costituzione non è l’epilogo di una rivoluzione già fatta, ma ne è il preludio, l’annuncio di una rivoluzione nel senso giuridico e legalitario ancora da fare”. I

n quei tempi anche due grandi della politica tout court, Padre Balducci e Antonio Papisca, si battevano perché l’ONU, per i principi su cui era nato, fosse sentito come strumento necessario per la pace in quanto “istituzione cardine per creare quella comunità mondiale che è il postulato intrinseco del rifiuto della violenza”. Per questo prendeva vita presso l’Università di Padova, il Centro di Ateneo dei Diritti Umani, oggi faro europeo a 40 anni dalla sua fondazione.

Per questo lo slogan di una PerugiAssisi “Costruire la pace dal quartiere all’ONU”.

E per questi motivi lo statuto dell’allora Provincia di Forlì-Cesena (a seguire quelli dei due comuni principali) venne declinato con parole nuove: la cultura della pace, le Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L’istituzione dei Centri per la pace a Cesena e a Forlì fu, poi, un portato naturale. La conquista del necessario consenso politico, tuttavia, fu tutt’altro che semplice. Non solo la destra pose veti, ma anche una sinistra avviata lungo una strada lontana da se stessa fino a coniare il termine “guerra umanitaria”, il più grande degli ossimori.

E però la sudditanza agli USA questo chiedeva e tuttora chiede: cos’altro è l’assenso acritico alla NATO (“macchina da guerra” per l’ex ambasciatore Sergio Romano), alle manovre militari ai confini con la Russia, al Summit per la Democrazia convocato da Biden per rilanciare la favola del “mondo libero”, unito nella missione di portare la democrazia nel mondo a guida USA?

Fare ogni sforzo per tenere assieme mondi scarsamente dialoganti: questo l’obiettivo a fronte di una politica sentita ogni giorno più lontana da una società civile delusa e frastornata. Alcune settimane fa chi c’era (anche dirigenti di partito e di sindacato) ha toccato con mano il risultato di questo lavoro. Presso l’Aula Magna della Malatestiana, grazie all’impegno dei ragazzi del Centro Pace, è stato possibile dialogare in diretta on line con una rappresentante di RAWA (Associazione Rivoluzionaria Donne Afghane), sigla sconosciuta a chi si limita a osservare la mediocrità dei tempi ma, come un pensionato (del pensiero), le mani dietro alla schiena, guarda i lavori in corso.

Sono state due ore di formazione politica. Perché è politica assegnare (e consegnare virtualmente) il premio Cesena città della Pace, è politica dire con cognizione di causa (e con scienza) cosa sono i Diritti Umani, quali secoli hanno segnato il loro faticoso percorso, cosa comporta non poterne godere. Lo statuto comunale ha consentito questo anche grazie ad un accorto assessore e ad una interessata presidente del consiglio. Ingrao, Balducci e Papisca si sarebbero sentiti inverati.

Piero Piraccini
30 gennaio 2022

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