Barack è il messaggio


La redazione


Soltanto un uomo con la sua storia e il suo volto sarebbe potuto saltare dal Vaticano al cuore più nero della turpitudine coloniale bianca e dire all’Africa quello che ieri Obama ha detto in Ghana: "Yes, you can".


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Barack è il messaggio

Sì, voi potete farcela. "Voi", con il nostro aiuto, non "noi", europei, americani, o asiatici. Non c'è molto che il mondo esterno, i club degli Otto, o Quattordici, o Venti, o quanti decideranno di essere i ricchi del mondo, possa fare per le nazioni africane, se non saranno le nazioni africane a scuotersi e a seguire l'esempio della terra detta del "Re Guerriero", appunto del Ghana.

Il ritorno al paese del figlio che ce l'ha fatta, anche se non fu la terra degli Ashanti, il Ghana, a dare origine alla famiglia paterna di Obama, ma il Kenya evitato per il caos sanguinoso interno, ha molto più di un facile valore simbolico e della carica umana di una folla in estasi. Altri leader politici hanno stanziato aiuti generosamente, come fecero Clinton e Bush, hanno espresso lo stesso concetto della "self reliance", del contare su se stessi, magari dimenticando che si domanda all'Africa di scavalcare montagne che i predicatori ancora innalzano, dalla Cina agli Stati Uniti, per succhiare le risorse del continente.

Ma per la prima volta da quando l'uomo bianco mise piede su questa costa, la persona è il messaggio. La testimonianza ha un volto reale – e intenzioni personalmente sincere – che può rompere il comprensibile scetticismo dei popoli africani verso quei distratti benefattori che si dimenticano di staccare gli assegni. Magari adducendo il pretesto che tanto, in quelle nazioni corrotte, i soldi dei poveri europei finiscono nei conti in Svizzera dei ricchi africani. Come se soltanto i ras tribali del Sub Sahara avessero conti numerati e società matrioska in Svizzera o in Lussemburgo.

Obama è una "piccola Africa" lui stesso, un uomo nato nelle condizioni più sfavorevoli che l'America del Nord potesse offrire, chiuso nel ghetto della propria pelle. Mezzosangue; figlio di una madre poco più che "sedotta e abbandonata"; sballottato attraverso le Praterie, il Pacifico, l'Indonesia, le Hawaii; portatore di un nome che sarebbe divenuto, dopo l'11 settembre, tossico, come Hussein. Sempre esposto alle tentazioni della strada e ai richiami di una comunità di colore che ancora diffida e disconosce il nero che vuole "comportarsi da bianco". E alla fine sarebbe diventato "il Re Guerriero", il Presidente della più potente tribù della Terra. Dunque può dire a chiunque, sia esso un Ghanese o un orfano della South Side di Chicago: "yes, you can". Se io ho potuto, così puoi tu.

E' lo stesso tasto sul quale, accolto con freddezza iniziale, battè nel suo discorso elettorale alla Naacp, la lobby dell'America di colore, quando disse che il tempo delle lamentazioni, del vittimismo, dei rancori era finito e ai giovani "black" americani erano aperte occasioni di successo, di studio, di promozione sociale, che i loro genitori non avrebbero neppure potuto sognare. E che spettava alle famiglie, soprattutto ai padri, assumersi la responsabilità di strappare i figli ai "videogame" e inchiodarli al quaderno dei compiti.

Come il club dei ricchi che si credono "grandi" non possono cercare alibi alla loro indifferenza davanti alla catastrofe di quella parte di umanità che essi continuano a dissanguare, così il triste club dei poveri deve trovare in sé la forza per sfruttare al meglio le proprie risorse umane e materiali, dice all'Africa il figlio tornato per un giorno alla casa del padre. Il Ghana era stato ribattezzato dai predoni di Sua Maestà britannica "la tomba dell'uomo bianco" per la strage, fatta da zanzare e malattie tropicali ignote, dei pallidi mercanti di Londra. Obama offre ai propri fratelli di essere, se lo vorranno, lo strumento per la resurrezione dell'uomo nero.

Fonte: La Repubblica

autore Vittorio Zucconi

12 luglio 2009

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Obama, messaggio all'Africa:
"Dovete farcela con le vostre forze"

Cori «Yes We Can» in Parlamento, canzoni reggae nel palazzo presidenziale, danze tribali sul selciato del castello degli schiavi, ovunque gigantografie di Barack Obama con la scritta «Akwaaba» (benvenuto) e decine di migliaia di persone accalcate lungo le strade. Così Accra riceve il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti alla prima visita ufficiale nell’Africa subsahariana. Joyce Bamford-Addo, presidente donna del Parlamento del Ghana, fotografa l’evento accogliendo Barack e Michelle nell’aula dell’Auditorium riadattata per i deputati parlando di «riunione spirituale» fra l’Africa e il suo figlio di maggior successo. Bamford-Addo veste la toga nera coi bordi dorati che evoca i riti parlamentari dell’antica Inghilterra e di fronte ha un parterre di deputati in abiti dai colori sgargianti che raffigura l’Africa tribale: tuniche verdi, giallo-oro o maculate, cappelli rosso fuoco, scettri a testa di leone e molte donne in abiti chiari con sopra stampata l’immagine di Barack.

Quando Obama, in completo scuro, entra nell’aula assieme al presidente ghanese John Evans Atta Mills il coro intona «Amazing Grace», la canzone-simbolo della battaglia contro la schiavitù, e dopo gli inni è un trombettiere ad annunciare i discorsi. Mills si presenta come una sorta di Barack locale perché «entrambi siamo stati votati da elettori che volevano cambiare». Poi tocca a Obama. Di fronte a lui pende, dalla galleria dove siede Michelle in abito grigio, lo striscione a stelle e strisce «Yes, Together, We Can» (Sì, insieme possiamo). Il presidente sorride, mostra di sentirsi a casa ma poi tradisce emozione parlando delle sue radici: «C’è sangue africano dentro di me, la storia della mia famiglia attraversa tragedie e trionfi dell’Africa, mio nonno era un cuoco in Kenya, fu imprigionato in un’epoca di repressione, mio padre pascolava le capre».

Parla da africano agli africani e il messaggio raggiunge in tempo reale decine di capitali del continente dove le ambasciate Usa hanno raccolto il pubblico in teatri e cinema. «Dovete rinunciare a tirannia e corruzione, i conflitti locali sono la pietra al collo dell’Africa», dice Barack, sfoderando la grinta di un leader che in patria ha riservato i messaggi più duri agli afroamericani, chiedendo di «mettere fine al vittimismo». «Il futuro dell’Africa dipende dagli africani anche se è facile imputare i propri problemi agli altri – incalza Obama -, se è vero che l’Occidente ha avuto spesso un approccio da padrone non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbabwe, delle guerre coi bambini-soldati, della corruzione o del tribalismo che pesarono anche sulla vita di mio padre».

La decisione di pronunciare l’atto d’accusa in Ghana si spiega con il fatto che «avete lavorato sodo per radicare la democrazia con pacifici trasferimenti in potere al termine di elezioni combattute» ed è a questo esempio che Obama si richiama, evocando padri fondatori dell’indipendenza africana come Nkrumah e Kenyatta, per una «partnership» capace di innescare «trasformazioni» basate su «comune responsabilità e mutuo rispetto». Sono quattro le sfide che lancia all’Africa: sviluppo della democrazia per allontanare dispotismi e corruzione perché «non avete bisogno di uomini forti ma di istituzioni forti»; rilancio dell’economia basato «non solo sullo sfruttamento delle materie prime» ma industria, agricoltura e nuove forme di energia «affinché non ci sia più bisogno di aiuti stranieri»; lotta alle epidemie per «continuare quanto fatto da Bush contro l’Aids» per sradicare malaria, tubercolosi e poliomielite; porre fine ai conflitti locali «per difendere ogni bambino del Darfur e ogni donna del Congo» da stragi e stupri.

Le ultime parole si richiamano a Martin Luther King, che 52 anni fa venne ad Accra per celebrarne l’indipendenza, e sono in crescendo: «Il mondo sarà come voi lo farete, potete farcela. Yes you can». Obama ha fiducia nelle capacità dell’Africa di risollevarsi, archiviando gli errori dell’anticolonialismo. Il coro del Parlamento intona «Yes We Can» quando Obama raccoglie l’abbraccio dei deputati. Poi va al forte di Cape Coast, da dove i negrieri mandavano gli schiavi in Nord America. «Questo luogo mi ricorda Buchenwald perché fu teatro di un Grande Male», dice il presidente, sottolineando come «sopra la prigione dei maschi sorgeva una chiesa a conferma che a volte tolleriamo il Male». E’ il momento della memoria della tragedia afroamericana e Obama parla da padre: «Sono contento che Malia e Sasha siano qui, vedono dove iniziò la diaspora». La partenza per Washington avviene da un aeroporto trasformato in pista di danza per i clan tribali che salutano l’Air Force One alla fine di un viaggio nel quale Obama ha affermato, al G8 come dal Papa, il diritto dell’Africa di essere un continente come gli altri.

Fonte: La Stampa

autore Maurizio Molinari

12 luglio 2009

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