Analisi: ad Annapolis si riparte ma in salita


La redazione


Il direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente Janiki Cingoli propone l’analisi della situazione mediorientale in vista del summit di Annapolis. "Il vertice era stato concepito come una chiamata dei buoni contro i cattivi. Ma questo schema ha fatto presto naufragio".


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Analisi: ad Annapolis si riparte ma in salita

Ad Annapolis sarà presente infine anche l’Arabia Saudita, con il suo ministro degli Esteri, il Principe Saud al-Faisal. Si tratta di un annuncio importante, che assicura un nuovo rilievo a questo vertice. Ma durante i lavori, ha annunciato Abu Mazen, non sarà approvata nessuna dichiarazione congiunta, malgrado tutto il lavoro preparatorio fatto in questi mesi. Si tratta di due notizie contrastanti, che danno il quadro del clima di incertezza creatosi.

Il vertice era stato convocato da Bush come reazione al colpo di Hamas a Gaza e per rafforzare Abu Mazen. La dissoluzione del governo di unità nazionale e la formazione di un esecutivo di emergenza senza Hamas venivano vissute dagli Usa e da Israele come una opportunità da non mancare. Il vertice quindi era stato concepito come una chiamata dei buoni contro i cattivi: Hamas, Hezbollah, i siriani e naturalmente gli iraniani e Al Qaeda. Ma questo schema ha fatto presto naufragio.

Innanzi tutto, era impensabile che l’Arabia saudita e gli altri Stati arabi moderati potessero accettare l’esclusione pregiudiziale della Siria, in contrasto con il Piano arabo di pace, che prevede la pace tra Israele e tutti gli Stati arabi.

Ma l’elemento essenziale è stato che le speranze iniziali di un rapido decollo dei negoziati israelo-palestinesi si sono presto arenate: malgrado i positivi incontri periodici tra Olmert e Abu Mazen e le aperture iniziali del Vice Premier israeliano Haim Ramon, su Gerusalemme, sui confini, ed anche sui rifugiati, è stato ben presto chiaro che il Governo israeliano non era in grado di reggere quelle sue avances, di fronte alle minacce di crisi della destra di Yisrael Beitenu e dei religiosi dello Shas e alle riserve dello stesso Barak.

Per evitare il naufragio, la scelta fatta è stata quella di puntare non sulla dichiarazione congiunta, ma sull’apertura stessa dei negoziati sul Final Status, che dovrebbero concludersi prima della la scadenza del mandato presidenziale di Bush.

Contestualmente, si cercherà di far decollare misure parallele per rafforzare la fiducia, come l’annuncio del blocco degli insediamenti, e da parte palestinese il rafforzamento dell’azione contro le milizie armate in Cisgiordania.

In sostanza, quella che viene superata è la concezione stessa della Road Map, il collo di bottiglia che l’aveva paralizzata: mentre in essa l’adempimento delle misure di fiducia, previste nella prima fase, era preliminare all’apertura dei negoziati finali, previsti nella terza, ora le due componenti sono destinate a viaggiare in parallelo, anche se la implementazione dell’accordo finale è subordinata al raggiungimento degli obbiettivi previsti per la prima fase. Della seconda fase, che prevedeva la creazione di uno Stato palestinese entro confini provvisori (che i palestinesi temevano potessero divenire definitivi), per ora non si parla più.

L’altro aspetto rilevante è il rafforzamento del quadro arabo di accompagnamento, testimoniato dalla presenza saudita. La fragilità palestinese e il sostanziale superamento della Road Map rendono sempre più evidente che l’unica proposta sul tappeto è il Piano arabo di pace.

Coinvolgere la Siria nel negoziato pare quindi una scelta essenziale per superare l’impasse mediorientale, e sempre più numerose sono le voci in Israele, compreso lo stesso Barak, che sostengono che il negoziato con Damasco è meno complesso e potenzialmente più stabilizzante rispetto a quello aperto con Abu Mazen.

I siriani, d’altronde, sono ancora incerti se partecipare, ed insistono perché nell’agenda dell’incontro venga fatto riferimento al negoziato sul Golan, ma certo la decisione di Ryad li spiazza e li mette di fronte al fatto compiuto, ed è quindi probabile che anch’essi finiranno per essere della partita, a qualche livello, per non restare isolati e non perdere l’occasione di far pesare le loro ragioni.

Quanto ai palestinesi, appare evidente che subito dopo Annapolis il tema della ricomposizione della frattura interna con Hamas è destinata a ritornare alla ribalta. A ciò spingono anche i principali Stati arabi a cominciare dall’Arabia Saudita e dagli egiziani: Un accordo che coinvolgesse solo Al Fatah sarebbe scritto sulla sabbia, e non si può pensare di creare uno Stato palestinese senza Gaza. Israele dovrebbe prenderne atto, evitando di minacciare l’interruzione dei negoziati se i palestinesi arrivassero a ripristinare gli accordi della Mecca e a ricostituire un Governo di Unità nazionale, uno sviluppo che la comunità internazionale dovrebbe favorire e non boicottare.

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