Alzi la mano chi ricorda i Millennium Goals


Ugo Tramballi - Slow news


Nei favolosi anni Novanta quando, vinta la Guerra fredda, credevamo che tutto sarebbe andato bene e la democrazia avrebbe trionfato ovunque; quando la pace sembrava vincere perfino fra israeliani e palestinesi.


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Nei favolosi anni Novanta quando, vinta la Guerra fredda, credevamo che tutto sarebbe andato bene e la democrazia avrebbe trionfato ovunque; quando la pace sembrava vincere perfino fra israeliani e palestinesi. Quando la globalizzazione aveva mostrato solo i suoi lati migliori, non ancora i peggiori, e dunque eravamo tutti più ricchi, certi di poterlo essere sempre di più; quando la Cina cresceva ma non al punto da spaventarci: più o meno come il Sassuolo che ci fa piacere faccia un bel campionato perché comunque resta sempre il Sassuolo, non diventerà mai il Real Madrid.

Quando tutto questo accadeva, il Millennium Development Goals ci commuoveva e ci mobilitava. Le più grandi rock star, le più luminose stelle del cinema cantavano e sorridevano, esortandoci a fare qualcosa contro la denutrizione, le malattie e la mortalità infantile, gli squilibri del mondo. A Davos – dove dieci anni dopo il capitalismo non si sarebbe accorto della tempesta perfetta che si stava addensando – il World Economic Forum si trasformava in una super-San Remo con la partecipazione straordinaria di Bill Clinton, Tony Blair, Nelson Mandela, Bill Gates nel ruolo del filantropo, Bono Vox, e Sharon Stone.

Ora, nel nostro grigio presente, prima di proseguire questo post credo sia meglio ricordare cosa sia il Millennium Development Goals, sottoscritto da tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite. Temo che qualcuno l’abbia dimenticato e che molti non sappiano cosa sia. Era il 2000, per l’Occidente l’apogeo di quel sentimento generale di ottimismo: l’anno seguente l’attacco alle torri gemelle avrebbe incominciato a farci sospettare che le cose non sarebbero state così facili.

Raccogliendo almeno un decennio di iniziative, l’Onu sintetizzò cosa occorresse fare per rendere il mondo una volta per tutte più giusto. Entro il 2015, si decise, sarebbero state sradicate la povertà estrema e la fame, raggiunta l’istruzione primaria universale, promossa la parità di genere, ridotta la mortalità infantile, combattuto l’Aids, migliorata la salute delle madri e altro ancora.

Il tempo sta per scadere e il bilancio non è affatto male, considerando l’egoismo innato delle nazioni e degli individui. Nel 1990 quasi la metà della popolazione nelle aree in via di sviluppo viveva con meno di 1,25 dollari al giorno. Vent’anni dopo il 22%. La denutrizione è scesa dal 24 al 14% degli abitanti delle regioni povere. Il tasso globale di mortalità infantile per i bambini sotto i 5 anni è sceso quasi del 50%. E il 90 ormai frequenta la scuola primaria. La lotta alla Tbc ha salvato 22 milioni di vite e 6,6 milioni quella contro l’Aids.

Ma 700 milioni di esseri umani ancora vivono in condizione di estrema povertà, 162 milioni di bambini ancora soffrono di denutrizione cronica e 58 milioni ancora non vanno a scuola: la metà di loro vive nelle zone di guerra.

Nessuno s’illudeva di fare tutto entro il 2015. L’importante era mettere in moto la macchina del cambiamento. Per questo è già iniziata la fase successiva: la nuova agenda globale per lo sviluppo 2015/2030. L’Onu ha avviato un processo di consultazione mondiale con sei nuove tematiche, ognuna discussa in una città del mondo. La prossima assemblea generale di New York, a settembre, approverà la nuova versione del Millennium Goals.

Una delle città scelte è stata Torino, lo scorso ottobre. Il tema sviluppato era “Localizzazione”: cioè il ruolo delle città e dei territori per amministrare i progressi dell’agenda fissata dal Millennium. Allora gli organizzatori non potevano immaginare cosa sarebbe accaduto a Roma, diventata la banca del mercimonio dell’aiuto ai migranti.

Il problema è che l’incontro di Torino, quelli nelle altre città, ciò che ancora c’è da fare nel mondo e i prossimi 15 anni di Milennium, non interessano più a nessuno. L’amico Emanuele Giordana aveva l’ingrato compito di convincere i giornali italiani a scriverne qualcosa. Si è perso in un deserto di dinieghi o di disinteresse assoluto, alla fine migliore dei tentativi di banalizzazione: perché non chiedere d’intervenire al cantante o all’attore di grido?

Non sono più i favolosi anni Novanta. La classe media occidentale – la cassaforte della solidarietà globale – si sta assottigliando. I ricchi sempre più ricchi temono per la loro ricchezza. I grandi leader non ci sono più e se ci sono si devono occupare di guerre e bilanci nazionali. La Cina non è più il simpatico Sassuolo ma è diventata il Real Madrid più il Barcellona. E i giornali italiani devono vendere, i loro siti essere cliccati, le televisioni fare ascolto. I poveri li abbiamo in casa. I leghisti, e non solo loro, temono che se risolviamo la denutrizione in Africa poi i “negher” rifocillati verranno a cercare lavoro da noi. E se Ban Ki-moon facesse un partito e si candidasse alle prossime elezioni, prenderebbe molti meno voti di Matteo Salvini e delle sue felpe identitarie. Che fine hanno fatto i Millennium Goals? Che fine abbiamo fatto tutti noi?

Fonte: http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com

7 dicembre 2014

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