Afghanistan, un voto che spacca il paese


Giuliano Battiston


Un’analisi da Kabul sulle elezioni presidenziali che si sono svolte il 5 aprile: le urne sono chiuse, ma la partita è appena cominciata.


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Le urne sono chiuse, ma la partita è appena cominciata. Sabato 5 aprile circa 7 milioni di cittadini afghani hanno votato per rinnovare i 34 consigli provinciali ed eleggere il successore di Hamid Karzai, al potere dal 2001, al quale la Costituzione vieta un terzo mandato consecutivo. La partecipazione è stata superiore alle aspettative. Quei 7 milioni di voti registrati dalla Commissione elettorale indipendente – l’organismo che ha il compito di gestire il processo elettorale – rappresentano il 60% circa dei 12 milioni di aventi diritto al voto, e segnalano un incremento del 20% rispetto ai 5.6 milioni registrati alle precedenti elezioni presidenziali, nel 2009.

Tra gli afghani, la giornata di sabato è stata salutata con un sospiro di sollievo e molto orgoglio. Come il segno di una forte volontà di cambiamento, e insieme uno schiaffo ai Talebani e agli altri movimenti anti-governativi, che avevano annunciato di voler sabotare il processo elettorale, minacciando tutti coloro che vi avrebbero preso parte (http://www.shahamat-english.com/index.php/paighamoona/42887-notification-of-islamic-emirate-regarding-the-upcoming-elections ).
I “turbanti neri” non sono riusciti a compromettere lo svolgimento delle elezioni, anche grazie al lavoro svolto dai 350.000 poliziotti e soldati delle forze di sicurezza afghane, a cui le truppe dell’Isaf (circa 60.000 uomini, di cui 30.000 statunitensi) hanno dato soltanto un sostegno marginale, molto più ridotto rispetto al 2009.

Le cifre sembrano legittimare l’entusiasmo della popolazione afghana. Ma rischiano di nascondere elementi tutt’altro che secondari. Il primo riguarda proprio l’inaffidabilità del sistema elettorale. Come racconta con dovizia di particolari Martine Van Bijlert, co-fondatrice e co-direttrice dell’Afghanistan Analysts Network, centro di ricerca con sede a Kabul, “nessuno sa veramente quanti siano gli elettori eleggibili, quante schede elettorali siano state distribuite” e dunque quale sia la rappresentatività del voto (http://www.afghanistan-analysts.org/elections-2014-7-an-emerging-mixed-picture).

Nelle due settimane precedenti al voto abbiamo visitato alcune città settentrionali del paese (Mazar-e-Sharif, Kunduz, Faizabad), prima di raggiungere Kabul e poi da qui Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, al confine con il Pakistan. In ogni città abbiamo incontrato persone che sbandieravano 4-5 schede elettorali, e che si offrivano di rimediarne una anche per noi. Alla vigilia del voto, nella sede principale della Commissione elettorale indipendente, il portavoce della Commissione, Noor Mohammad Noor, ci ha assicurato sullo svolgimento regolare del voto, sostenendo che il doppio sistema di verifica introdotto dalla Commissione avrebbe reso inefficace il “voto multiplo”: una volta eseguito il voto, gli elettori sono stati invitati a intingere nell’inchiostro blu un dito, sul quale è stato poi applicato una spray che si illumina alla luce.

Anche se la doppia verifica dovesse aver funzionato, il sistema non ha impedito le irregolarità. La Electoral Complaints Commission (ECC) ha registrato finora più di 3000 presunte irregolarità, mentre Nader Nadery, portavoce dell’istituzione indipendente Free and Fair Election Forum of Afghanistan (Fefa), ha parlato di circa 10.000 casi riportati dagli osservatori della Fefa. Nei prossimi giorni la Commissione elettorale comincerà a rendere noti i primi, preliminari risultati sull’esito del voto. Ci vorranno settimane prima che quelli finali siano acquisiti, ma alcuni candidati hanno già annunciato la vittoria.

Tra questi, Ashraf Ghani, il tecnocrate già funzionario della Banca mondiale ed ex ministro delle Finanze, tra i favoriti insieme ad Abdullah Abdullah, leader dell’Alleanza del nord, e a Zalmai Rassoul, già consigliere per la sicurezza nazionale per Karzai e ministro degli Esteri fino alla fine del 2013. Nei giorni scorsi, in un post sulla sua pagina Facebook che ha sorpreso molti, Ashraf Ghani si è detto sicuro di aver racimolato più del 50% dei voti, quelli che gli permetterebbero di essere eletto evitando il ballottaggio a fine maggio.

Con il passare delle ore Ghani sembra aver abbassato il tiro, dichiarandosi pronto all’eventuale ballottaggio, ma l’uscita rimane. E segnala un elemento importante: memori dell’esperienza del 2009 – quando Abdullah rinunciò al ballottaggio accusando Karzai di aver manipolato il voto -, consapevoli dell’inaffidabilità del marchingegno elettorale, i candidati alla presidenza e i loro sostenitori giocano la partita anche sul piano della comunicazione (http://www.ipsnews.net/2014/04/misgivings-rise-afghan-poll/). Anticipano le mosse degli avversari e sperano di condizionare l’esito delle elezioni facendo la voce grossa o sparando numeri approssimativi.

I numeri definitivi non sono ancora disponibili. Per questo è prematuro tirare conclusioni. L’unica cosa che qui a Kabul viene data per certa è proprio il ballottaggio tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah. Il terzo favorito, Rassoul, candidato sostenuto dal presidente uscente, già si è incontrato privatamente con Abdullah. Non ha detto che lo sosterrà in caso di ballottaggio, ma probabilmente già si è accordato per farlo, portando con sé un bel bottino: il sostegno di Qayyum Karzai, fratello del presidente uscente, e quello del sardor (principe) Mohammad Nadir Naeem, nipote dell’ultimo re afghano, Zahir Shah.

Quale che sia l’esito delle elezioni, già da ora il voto appare fortemente differenziato per aree geografiche, almeno in due sensi: innanzitutto perché gli elettori hanno orientato il proprio voto per affiliazione etnico-comunitaria e linguistica prima ancora che politica (http://www.ipsnews.net/2014/04/afghans-set-vote-ethnic-lines/ ).

Questo significa che Abdullah Abdullh, esponente del Jamiat-e-Islami, il partito a prevalenza tajika fondato negli anni Settanta da Burhanuddin Rabbani (ucciso dai Talebani nel 2011), ha macinato consensi soprattutto nelle province settentrionali, dove più numerosa è la comunità tajika e più radicato il partito Jamiat. Mentre Ashraf Ghani ha raccolto consensi soprattutto nelle aree a maggioranza pashtun, in particolare nella zona meridionale e orientale del paese, affidandosi invece al generale ed ex warlord Abdul Rashid Dostum, leader del partito Jumbesh-e-Milli, per attingere ai voti della comunità uzbeca, al nord. Abdullah Abdullah presenta un certificato di nascita “doppio”, metà tajiko e metà pashtun, ma il ruolo svolto nell’Alleanza del nord a fianco del comandante Massud, il leggendario “Leone del Panjshir”, lo fa percepire come un tajiko. Per questo, per aumentare i consensi anche tra i pashtun, specie nel sud/sud-est del paese dove è debole, si è scelto come secondo Mohammad Khan, membro dell’ala politica del partito radicale islamista Hezb-e-Islami, affidandosi invece a Mohammed Mohaqeq per i voti della comunità hazara, tra le più attive politicamente.

La cartina disegnata dal voto riflette un paese dove i sospetti tra comunità etniche – strumentalmente usati dai vari warlords nei decenni precedenti – continuano a giocare un ruolo importante. E dove la spaccatura tra centri urbani e aree rurali rischia di approfondirsi, anziché diminuire. E’ proprio questo il secondo elemento che indica un voto geograficamente differenziato: nei centri urbani la partecipazione al voto è stata più ampia, perché migliori le condizioni di sicurezza, più sofisticato il dibattito politico, più attenti i media locali e stranieri, più accessibili i seggi (http://harpers.org/blog/2014/04/the-ghost-polls-of-afghanistan/ ). Nelle aree rurali, il voto è stato frammentato e percentualmente inferiore, perché peggiori le condizioni di sicurezza e più forte il condizionamento esercitato dal ricatto e dalle armi: quelle dei Talebani, dei comandanti militari, dei signorotti locali, o delle milizie arbaki (http://www.pagina99.it/news/mondo/4950/-Ci-serve-un-futuro-.html ).

Tra i compiti del prossimo presidente della Repubblica islamica d’Afghanistan, che sia Abdullah Abdullah o Ashraf Ghani, c’è dunque anche quello di ricomporre la frattura tra centri urbani e aree rurali. Nel 1929 il re Amanullah Khan perse il potere proprio a causa di questa spaccatura. Perché ne capì in ritardo la portata e cercò di sanarla “modernizzando” le aree rurali, troppo in fretta. Al futuro presidente spetta l’arduo compito di trasformare in cittadini dello Stato i tanti afghani che vivono nelle aree rurali. Ancora sudditi dei poteri locali.

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Fonte: www.lettera22.it
12 aprile 2014

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