Afghanistan, cosa penso della guerra


Emanuele Giordana - Lettera22


Chi sperava che il vertice dei ministri degli Esteri del G8, riunitosi a Trieste dal 25 al 27 giugno, indicasse una nuova strategia per superare la guerra in corso in Afghanistan dal 2001 è rimasto deluso. Ma a quali soluzioni di può pensare per uscire dalla palude della guerra?


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Afghanistan, cosa penso della guerra

Il G8 e l'AfPak

La Conferenza, che avrebbe dovuto essere dedicato soprattutto alla stabilizzazione dell'AfPak (l'acronimo con cui si indicano Pakistan e Afghanistan ormai ritenute un insieme geopolitico), si è in realtà occupata del conflitto con una riunione informale allargata solo nel pomeriggio del penultimo giorno e nella mattinata dell'ultimo, così che nella dichiarazione finale del summit, resa nota già venerdi, i capi della diplomazia mondiale di tutto hanno parlato (dall'Iran alla pirateria) ma senza far menzione della guerra.
Quanto alla riunione “informale” che ha concluso i lavori del vertice, il suo unico merito sembra esser stato quello – il che certo non è poco ma neppure molto – di aver fatto sedere allo stesso tavolo 24 paesi, che si sono trovati d'accordo – come ha spiegato il ministro Frattini – nel dare avvio a un processo virtuoso di maggior "coerenza e concretezza" negli sforzi verso l'Afghanistan che fino a oggi, ha ammesso il ministro, "non sempre sono stati coordinati fra di loro". Ma oltre a spiegare che l'Afghanistan, rimane "un'area di preoccupazione" per la comunità internazionale e che, in quanto tale, merita "aiuto, sostegno e incoraggiamento" attraverso una più stretta "collaborazione regionale" con il coinvolgimento anche dei paesi vicini, il summit non sembra aver partorito molto di più. Non solo: la macroscopica assenza di Teheran – che ha declinato l'invito triestino – potrebbe persino far pensare che il vertice sia in gran parte fallito. Di che collaborazione dei paesi vicini si può infatti parlare se manca l'Iran, la nazione più importante con il Pakistan, tra quelle confinanti?. Frattini ha spiegato che "l'Iran è solo uno dei molti paesi vicini, tutti gli altri hanno collaborato costruttivamente" e ha aggiunto che "ci sono temi come il traffico di droga sul quale credo che l'Iran abbia grande interesse a cooperare e spero che in futuro coopererà". Un auspicio, niente di più. Ma non è tutto.

Assenze ingombranti

La guerra in Afghanistan si può definire in molti modi: un conflitto interno tra gruppi insurrezionalisti che combattono un governo centrale debole appoggiato da forze straniere; la prima vera guerra che impegna la Nato fuori dai suoi “confini naturali”; una “guerra americana”. Tutti gli elementi di analisi porterebbero a considerare quest'ultima accezione come la più corretta. Gli Stati Uniti hanno in Afghanistan una missione militare (Operation Enduring Freedom, Oef) che sfugge al comando di Isaf/Nato, autorizzato a operarvi da un mandato del Consiglio di sicurezza; controllano la leadership afgana (come si evince dalle manovre attorno alle candidature per le presidenziali di agosto); sono il maggior donatore sul piano militare e civile; la loro influenza sugli alleati occidentali è fortissima.
Il basso profilo tenuto dagli Stati Uniti a Trieste, dove per motivi di salute il segretario di Stato Clinton si è fatta sostituire da un funzionario del Dipartimento di Stato, ha corroborato l'opinione che solo Washington sia effettivamente in grado di indicare una strategia. E che in sua assenza, gli europei – e non solo loro – non siano in grado di indicare non soltanto una via d'uscita (exit strategy, una locuzione che si fa sempre più strada nel parlamento statunitense e nella stampa americana) ma nemmeno i nodi principali del conflitto: il quadro del processo di riconciliazione nazionale (cioè il dialogo con i talebani); il problema delle stragi di civili; la convivenza del doppio mandato tra Isaf/Nato e Oef; una miglior cooperazione allo sviluppo che incida sulla vita degli afgani e aumenti un consenso alla presenza occidentale decisamente in declino; una precisa svolta che superi la mera “opzione militare”.
Benché la nuova amministrazione americana abbia iniziato ad affrontare tutti questi punti (apertura sul negoziato, promozione del cosiddetto “civilian surge”, consistenza della spesa in cooperazione e infine una ridefinizione della strategia militare che limiti i raid aerei e le vittime civili) essa appare ancora nebulosa e, soprattutto, prigioniera dello scontro tra le nuove idee di Obama e dei suoi consiglieri (tra cui Ahmed Rashid e il professor Rubin Barnett), i settori del Pentagono e del Dipartimento di Stato ancora fedeli alle tattiche del suo predecessore e una macchina della guerra che sembra ormai autoalimentarsi. Se dunque a questa nebulosa, non priva di spunti interessanti e importanti, si associa l'incapacità europea sia di sostenere adeguatamente la nuova politica americana sia di consigliarla al meglio, l'impressione che se ne ricava è che ormai il conflitto sia in una fase di stanca, di stallo diplomatico e di impasse militare, condito da una totale mancanza di una strategia (europea) che ne possa indicare il superamento. La macchina insomma sembra assai logora.

Quale svolta?

Poiché l'impasse, politico, diplomatico e di consenso, esiste fortunatamente anche dall'altra parte del campo, segnatamente nelle file di una guerriglia disomogenea e, al momento, incapace di creare un fronte comune tra le sue diverse anime, il momento non potrebbe essere più opportuno per tentare una svolta definitiva di cui l'Europa, il maggior contributore della coalizione, dovrebbe farsi promotrice. Come articolarla?
Il negoziato tra il governo e i talebani è una realtà, per quanto fragile, già in atto da diversi mesi e si è allargato ad altre figure come quella di personaggi del calibro di Hekmatyar. Il processo andrebbe rafforzato, spiegato alla società civile (in molti casi contraria a scendere a patti con l'ancién regime in turbante), coadiuvato dallo studio di strumenti legislativi adeguati e da un piano di assorbimento dei futuri ex guerriglieri. La “ownerwrship afgana”, da più parti sbandierata, andrebbe affettivamente rafforzata e resa efficace (qualche segnale in questa direzione già c'è) con un piano di lungo termine che preveda la presenza di consiglieri ma che effettivamente consegni al governo afgano (cosa che al momento non è) la direzione degli affari di stato – e la gestione della sicurezza – anche attraverso il ripristino delle strutture di consultazione tribale (loya jirga) destrutturate o private di potere dall'amministrazione “controllata” messa in campo dagli occupanti; una revisione dei piani di cooperazione con investimenti mirati ai bisogni primari reali (sanità in primis, educazione, servizi come acqua e luce, controllo dell'ambiente); la costruzione di un archivio e di un catasto che si accompagni a una riforma agraria, vero nodo di tutti i conflitti afgani e primo tassello della guerra alla produzione dell'oppio e al narcotraffico; un piano di costruzione di strumenti di democrazia “dal basso” in una società in cui, attualmente, il potere rappresentativo è in mano ai vecchi comandanti mujaheddin protetti da una legge di amnistia.
Infine, sul piano militare, senza prevedere un ritiro immediato delle truppe – che consegnerebbe il paese, nella situazione attuale, a una nuova stagione di caos e di guerra civile – andrebbero sempre più ridotte le azioni militari occidentali, prefigurando un cessate il fuoco unilaterale e restituendo all'Isaf il suo primigenio mandato, quello di una presenza di stabilizzazione. Un'idea impossibile però se prima non si chiarisce ruolo e autorità delle due missioni (Nato e Oef) che attualmente convivono parallele in un conflitto che non ha una direzione né un unico comando operativo. Una confusione pericolosa che sinora ha fatto gravissimi danni di cui, soprattutto i militari europei, sono ben consci. Anche se nessuno di loro ha il coraggio di ammetterlo pubblicamente.

Fonte: articolo21

* Questa analisi è stata scritta per il Cipmo

1 luglio 2009

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