Accoglienza: chiusa la fase dei ghetti?


Avvenire


Mercoledì 16 inizia l’esame del Senato sulle norme che cancellano i decreti Salvini. Debutta il sistema Sai, addio al Siproimi. In questi anni, 30mila irregolari in più.


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immigrati

Pronti a tornare in prima fila. Dopo l’anno zero dell’accoglienza, coinciso con i decreti Salvini, sindaci e Terzo settore diventano protagonisti delle politiche migratorie.

L’obiettivo è allontanare lo spettro dei 30mila invisibili in più creati in questi anni, persone di fatto escluse dal circuito ufficiale dell’ospitalità. L’appuntamento è fissato per domani, mercoledì 16 dicembre, quando l’aula del Senato esaminerà le modifiche proposte al decreto sicurezza decise dal Conte II: l’esame dovrebbe esaurirsi il giorno dopo, il testo è stato approvato la settimana scorsa alla Camera.

Non c’è dubbio che il rilancio dei progetti di inserimento degli immigrati sul territorio rappresenti la novità principale del nuovo pacchetto di interventi messo a punto con la regia del Viminale.

Il nuovo Sistema di accoglienza e integrazione si chiamerà dunque Sai e abbandonerà l’approccio centralizzato e securitario dei centri di accoglienza pubblica per tornare ad un sistema decentralizzato e diffuso, che sarà gestito principalmente dai sindaci e che potrà contare sul sostegno fondamentale della società civile. Verrà articolato in due livelli: al primo livello, l’accoglienza, potranno accedere i richiedenti protezione internazionale e al secondo, l’integrazione, coloro che ne sono già titolari.

 

L’impegno mai venuto meno

Il sistema Sai prenderà il posto di un’altra sigla, il Siproimi (sigla che sta per Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati). «Diciamo che il Siproimi ha rappresentato una fase di passaggio. I Cas, i grandi centri rimangono, ma si occuperanno soltanto di primissima accoglienza e per un periodo comunque limitato», spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato e responsabile dell’Anci per i migranti.

Oggi, col nuovo sistema Sai, richiedenti asilo e titolari di protezione umanitaria tornano al centro dei percorsi di integrazione. «Accogliere non è solo dare una casa, del cibo e del vestiario a chi ha bisogno, ma anche creare le precondizioni per trasformare chi arriva da un Paese straniero da migrante a cittadino» sottolinea Claudia Fiaschi, portavoce del Forum del Terzo settore. Ecco allora i corsi per l’insegnamento della lingua italiana, i corsi di formazione professionale, l’inserimento dei minori nei percorsi scolastici. Soprattutto, la possibilità di iscriversi all’anagrafe e di convertire il permesso di soggiorno in un permesso di lavoro. Atti formali che prima erano negati e che invece hanno un alto valore simbolico perché «sono la più potente forma di inserimento per chi altrimenti rischia di sentirsi ai margini – continua il sindaco di Prato –. Attraverso l’occupazione e il volontariato sociale, permettiamo a migliaia di persone di restituire alle nostre comunità quello che hanno ricevuto».

Ciò che spaventa i primi cittadini e il mondo cooperativo è il ritorno della “retorica della paura”, su cui in tanti hanno mietuto facili consensi in passato. «Abbiamo sofferto per la banalizzazione di un modello che aveva fondamentali sani– racconta Fiaschi –. In questa lunga transizione, non bisogna dimenticare che il Terzo settore si è abituato a trovare soluzioni nel contesto dato. Senza chiedere nulla in cambio. Occorrevano risorse aggiuntive? Le mettevano le Fondazioni».

 

Il deserto alle spalle

Negli anni del governo gialloverde, per la prima volta ci sono stati posti vuoti nel sistema dell’accoglienza. Un’inversione di tendenza mai vista in vent’anni, frutto dell’esclusione dal sistema ufficiale di migliaia di persone, per via dell’abolizione della protezione umanitaria e del perimetro più ristretto dell’accoglienza. I progetti sono andati avanti, con meno fondi e soprattutto con una chiara subalternità ai Cas, i Centri di accoglienza straordinaria. Sono cresciuti i “grandi ghetti”, soprattutto nelle città, si sono impoverite le comunità locali. I bandi per l’accoglienza sono andati deserti perché molte organizzazioni hanno deciso di non parteciparvi. Capitolati troppo svantaggiosi, con servizi richiesti assegnati spesso al massimo ribasso. Senza dimenticare che dopo un anno, un anno e mezzo di permanenza nei Cas, diventava difficile lavorare nella “seconda accoglienza” ribattezzata Siproimi. Il resto è storia di ordinaria inefficienza: tempi lunghi delle commissioni territoriali, centralizzazione delle decisioni con azzeramento delle funzioni della società civile, fine dei percorsi personalizzati per gli stranieri.

«Le politiche hanno da sempre la responsabilità di costruire percorsi di inclusione e un modello di solidarietà» osserva Fiaschi, che adesso vede «uno spirito diverso». «Faremo accoglienza sicura, perché la sicurezza non è mai stata secondaria per chi si occupa come noi sindaci di amministrare i territori» continua Biffoni. Per questo, si sta preparando come sempre un “esercito” di educatori e mediatori culturali. «Dimostreremo che l’integrazione porta benefici a tutti, non solo a chi opera in prima linea».

Diego Motta
Avvenire
15 dicembre 2020

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