A Soweto, dove il Sudafrica diventa Mandela


Paolo G. Brera - La Repubblica


Mandela ricoverato in ospedale per infezione polmonare. Preghiere da Pretoria a Johannesburg, nel cuore nero del Paese, ma tra giovani prevale disinteresse.


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mandelaospedale

I medici dicono che Mandela sta meglio, che “reagisce alle cure ed è di ottimo umore”, ma qualcuno già pensa che ci si debba rassegnare: “Ormai Tata, il padre, non c’è più. Ci ha già lasciati, siamo noi che non vogliamo deciderci a lasciar andare via lui”, dice Poloder bevendosi una birra con gli amici davanti alla chiesa Regina Mundi, nel cuore di Soweto che è il cuore nero del Sudafrica. Troppa “paura dello shock”. Perché almeno su questo i sudafricani sono davvero un popolo unito come predicava Mandela, finché ha avuto il fiato per parlare in pubblico. Il giorno che morirà sarà un trauma che nessuno oggi vuole neppure immaginare.

Oggi è “good Friday” di Pasqua, uffici e scuole chiuse e tutti in chiesa a pregare e cantare. Le porte delle chiese sono aperte tutto il giorno, e da stamattina il Sudafrica è tutto lì, a ringraziare il Signore e a pregare per Mandela. Non c’è chiesa in cui il prete o il predicatore non abbia chiamato i fedeli a una preghiera, a un ricordo, a un pensiero per l’uomo che ha insegnato al Paese il significato di unità e di pace, la radice del nuovo Sudafrica che ha sconfitto l’Apartheid ma che ancora combatte il seme della xenofobia, di quella bianca come di quella nera.

“Amico mio, Mandela non c’è già più da anni. Ormai è una statua tenuta in vita per noi. Quand’è l’ultima volta che si è fatto vedere in pubblico?”.
I più cinici, i meno allineati alla retorica che oggi vuole solo lacrime e preghiere, sono proprio i ragazzi seduti davanti alla grande chiesa di Soweto. “Ha 94 anni, e a 94 anni si deve poter morire serenamente  –  dice Steve Lekolea, non il più duro nel gruppo di dieci – invece il governo ha paura, Mandela è la voce che ci tiene tutti in pace anche ora che tace da anni”.

Non è il quadro che ti aspetti, ma se vuoi capire il Sudafrica di Mandela devi sapere che i colori sono anche questi. Non solo, ovviamente. Nella grande chiesa di Regina Mundi stracolma di gente, di ragazzini in divisa e di donne fasciate nei loro vestiti della festa, Funkeys Maduna si regge sulle stampelle che lo aiutano da quando il diabete gli ha divorato una gamba: “Ho pregato molto, moltissimo per lui. E’ un uomo forte e buono, se siamo un popolo è grazie a lui e abbiamo ancora bisogno di lui. Ma ha sofferto troppo, 27 anni in prigione… Come faremo?”.

Lo leggi nei loro occhi lucidi che parlano con il cuore, quando parlano di Mandela. “E’ lui che ci ha regalato questo Sudafrica, è lui che ci ha spinto a credere che siamo e dobbiamo essere una sola anima nell’unità e nella pace”, dice Hilda Mohatlane. “Siamo tristi, molto tristi”, le fa eco Sibongile che ha appena partecipato alle celebrazioni nella chiesa di Saint Peter e ora è venuta anche lei a pregare in Regina Mundi, l’unico luogo dove negli anni orrendi della segregazione i neri riuscivano ad aggirare le leggi che impedivano loro di riunirsi per paura di rivolte.

Dietro di lei due ragazzine quindicenni, Dineo e Thando, sorridendo squadernano un repertorio diverso: “Perché dovremmo pregare per lui? E’ vecchio e certamente lui non prega per noi. Forse lo faceva una volta ma ora pensa solo alla sua famiglia, e noi pensiamo alla nostra”. Ecco perché fa male, fa malissimo l’idea che Mandela possa davvero andarsene, in una serie sempre più ravvicinata di difficili ricoveri ospedalieri: perché la leggenda su cui il Sudafrica ha costruito un Paese è una leggende vivente, ed è un cemento difficile da raccontare ai figli di un Sudafrica che ancora cova montagne di dolore, sotto la polvere della pacificazione; e in cui le differenze tra i bianchi, quasi sempre almeno benestanti, e i neri, talvolta poverissimi, sono ancora infinite.

Fonte: www.repubblica.it
29 marzo 2013

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